Ho voluto dormire in un capsule hotel per capire cosa si prova ad essere giapponese. Non è roba per turisti, in effetti. Praticamente c’è questo stanzone in cui sono disposti dei cubicoli stile obitorio, su due file sovrapposte. Ogni cubicolo è grande come una cabina doccia, però a misura di giapponese: ovvero, così piccolo che io sporgevo con i piedi come Pippo, e la coperta era altrettanto corta, per cui ho passato buona parte della notte a tirarla più su o più giù per riscaldare le parti del corpo che restavano scoperte. All’interno del loculo c’è una piccola TV, una presa di corrente, una micro mensola, e vari bottoni che servivano non so bene a cosa, visto che le scritte erano tutte in giapponese. Mi sono messa a schiacciare bottoni a caso, inclusi quelli con vicino una grande X rossa e degli ideogrammi che avevano tutta l’aria di dire “se premi questo bottone succederà qualcosa di brutto”, forse il terremoto di stamattina l’ho provocato io schiacciando uno dei bottoni proibiti.
In realtà il capsule hotel non è un posto sordido come speravo, il target è costituito da persone che devono trovare un alloggio per una notte e poi ripartire subito, tipo qualcuno che è rimasto incastrato in una riunione fino a tardi e ha perso il volo, oppure che arriva di notte e la mattina dopo deve andare da un’altra parte. Questo tipo di hotel costa poco (io ho pagato 21 euro, e mi hanno anche regalato il terremoto), è pulito, e ti danno anche un micro armadietto (la metà di quelli della palestra, per capirci), spazzolino da denti e saponi vari, ciabatte e una specie di pigiama taglia bambino di 8 anni che equivale a giapponese di 30. Il mio dramma è stato far entrare un borsone da viaggio nell’armadietto: prima ho cercato dolcemente di plasmarlo per renderlo stretto e lungo come un mocio vileda; fallito questo tentativo, ho optato per il metodo strong, ovvero posizionarlo davanti all’armadietto, prendere una bella rincorsa e cacciarlo dentro a spallate. Dopo dieci minuti ce l’ho fatta, e dopo aver chiuso l’armadietto mi sono accorta che non corrispondeva al numero del mio loculo, e quindi ho dovuto estrarlo imprecando profusamente, e rischiando di tirarmi addosso l’intera fila di armadietti che occupavano tutta la parete. Alla fine mi sono coricata, sentendomi molto integrata con i giapponesi, ho battagliato per varie ore con la coperta corta, i piedi che sporgevano, il getto d’aria condizionata che mi sparava aria a 200 all’ora direttamente sul cranio (l’alternativa era arrostirmi come una tacchina nel forno) e verso le 2.30 mi sono addormentata. E poi alle 5 ecco il terremoto. Sembrava di essere dentro al cestello di una lavatrice in centrifuga. Il mio primo pensiero è stato: oddio morirò schiacciata dalle macerie di un hotel-loculo di Osaka. Però, che morte chic. Ma per fortuna i giapponesi sanno il fatto loro quanto ad edilizia antisismica, e quindi eccomi qua, a guardare il rotolare ipnotico della mia felpa in una lavatrice a gettoni mentre sorseggio una tisana fatta con l’acqua di Hiroshima. Di sicuro un sabato sera fuori del comune.
Sarah Baldo