L’unico modo per rendersi davvero conto di quanto accade in Italia è andando a vedere con i propri occhi. L’ho imparato sulla mia pelle e anche questa occasione la lezione si è dimostrata fondamentale. La prima cosa che posso dire sul terremoto che ha colpito la Bassa Pianura Padana è che ha trovato, come al solito, una Nazione impreparata, delle istituzioni fragili e farraginose, una popolazione inerme, unica vittima di tale ignoranza. Basta vedere un qualsiasi telegiornale per accorgersi dell’incapacità metodologica e della scarsissima formazione dei giornalisti, domande sempre banali, volte non “alla comprensione di” o “all’informazione su” un fenomeno, bensì alla disperata ricerca dello scoop, in preda alla sindrome da tasso d’ascolto. Basta osservare la macabra dinamica delle morti per capire che è stata sottovalutata, per l’ennesima una volta, la gravità dell’emergenza, la pericolosità di un evento naturale con cui invece dovremmo essere abituati a convivere. Le vittime del 29 maggio sono a tutti gli effetti “vittime di Stato”. Quante altre L’Aquila o Bassa Padania dovranno esserci perché si radichi la cultura della prevenzione?
Sono partito venerdì 1 giugno subito dopo pranzo. Cinquecento chilometri di strada e una ragazza ad aspettarmi all’uscita dell’autostrada Bologna Casalecchio. Si chiama Monique, è di Modena, non della parte di provincia colpita. Nel 2009 è stata all’Aquila per sei mesi come volontaria, un’esperienza talmente tanto importante che l’ha spinta a fare anche un documentario (Ottocentroquarantanove – Vita e segreti di una città dimenticata) di recente uscita. Abbiamo chiacchierato davanti ad uno sprinz cenando con l’aperitivo. Poi subito in marcia direzione Mirandola. Dopo la scossa dello scorso 29 maggio, la Protezione Civile e le autorità nazionale hanno deciso per un intervento massivo e capillare sul territorio colpito. Stanno nascendo le prime tendopoli e iniziavano a spuntare i C.o.c. (Centro operativo commissariale, omologhi dei C.o.m. aquilani…).
Arriviamo in via Confalonieri verso le 21.30. È già buio. Sotto gli alberi di un parchetto comunale, una ventina di tende da campeggio. Ci vivono alcuni residenti della zona che, come più volte sottolineano, non voglio andare nella tendopoli della PCI, non si fidano, non voglio essere militarizzati (in questo la lezione dell’Aquila ha avuto il suo peso). Ad aiutarli, tre ragazzi, appena ventenni, appartenenti al Collettivo Autonomo Studentesco di Modena, conosciuto come Guernica. Un signore di mezza età suona la chitarra sotto la tenue luce di un lampione. Hanno generi alimentari e di prima necessità, ma non ancora la corrente elettrica. Mi dicono che gli è stato anche intimato di andare nella tendopoli, o saranno incriminati per occupazione di suolo pubblico. Il controllo governativo del territorio è già iniziato, presto vedremo le forme del comando, penso. Prima di me, due amici aquilani, Sara Vegni ed Emanuele Sirolli, sono stati qui in visita, e nonostante ciò mi sommergono di domande. La più ricorrente: «quando potremo tornare a casa?» Credono che tutto quello che gli sta capitando sia passeggero. Gli dico che devono abituarsi all’idea che l’emergenza possa durare a lungo, che non c’è fretta di tornare nelle case, che il rischio è ancora alto e non ne vale la pena, che la sicurezza è fondamentale.
Consegnamo ai tre volontari due tende donate da amici aquilani, Nicoletta Bardi e Federico Bucci, e ci rimettiamo in cammino. Voglio raggiungere gli altri due aquilani a Finale Emilia e farmi raccontare quello che hanno fatto nei giorni precedenti, sapere la loro impressione preziosa di terremotati e condividere i contatti presi.
Li incontriamo alla sede di Manitese (in via Per Camposanto 7A). È quasi mezzanotte e la maggior parte della persone è andata a dormire. Faccio la conoscenza Enrico, un rappresentate dei G.a.s. della zona. Un bicchiere di lambrusco e i loro racconti. Monique dopo poco ci saluta, la aspettano ancora 80 km di strada per tornare a casa. Noi continuiamo a chiacchierare fino a notte fonda.
La mattina seguente inizio finalmente la mia attività di informazione. Manitese è una ONG nazionale che opera nell’ambito dello sviluppo e cooperazione nei paesi del Sud del Mondo. Qui a Finale Emilia hanno un mercatino dell’usato, fanno attività di laboratorio artigianale e lavorano con i bambini. Conosco Bettina, Luca, Nicola, Gianluca, solo per citarne alcuni. In realtà in questi giorni qui si sono riunite almeno una trentina di persone. Tanti abitanti del luogo usano questo posto come punto di riferimento, come hanno fatto anche diverse associazioni regionali e nazionali (ad esempio il T.P.O. di Bologna e il nostro 3e32), che si sono affidate a loro per lo stoccaggio dei generi di prima necessità. Non solo sono (e saranno a lungo) referenti validi per questo genere di iniziative, sono già testimoni obiettivi, hanno il polso della situazione e, scommetto, diventeranno anche un soggetto politico decisivo per le sorti di tutto il cratere sismico.
Dopo pranzo mi unisco a Nicola, ad altri ragazzi del Manitese e ad alcuni volontari bolognesi per andare a distribuire generi alimentari e monitorare gli insediamenti di fortuna che ancora non sono riusciti a visitare. È l’occasione per me di rendermi conto del reale stato delle cose. Solo ora alla luce del giorno inizio a vedere i veri danni causati dalle forti scosse. La prima cosa che balza agli occhi sono i vecchi casolari, oggi usati come magazzini o abitati da cittadini stranieri. Molti sono crollati, a quasi tutti è venuto giù il tetto. Siamo passati anche per il nucleo industriale di Mirandola, davanti ai capannoni crollati il 29 maggio, dove ci sono state gran parte delle vittime. Un cumulo di macerie contornato dal nastro bianco e rosso. Qualche auto di curiosi. Nulla di più. Mancano ancora i ricordi dei cari, i fiori, le foto, l’avviso di sequestro da parte della magistratura. È ancora presto. Ci vorranno anni per la verità, anni per accertare le eventuali responsabilità. Film già visti. Il peggio che il nostro Paese sa offrire.
Dapprima ci rechiamo a Forcello, una piccola frazione di San Possidonio. Ci sono molti danni, anche in case di nuove costruzione. Rispetto all’Aquila i danni si vedono nei tetti, non al primo o al secondo piano. Dipende dal tipo di costruzione, dal terreno sottostante, dal tipo di terremoto. Le persone della piccola tendopoli autogestita appaiono stanche, spossate. Hanno fronti corrucciate, la pelle scintillante di sudore. Dicono di non volersi muovere, anche loro non vogliono andare nella tendopoli della PCI. Vogliono stare vicino alle loro case. Mi metto a parlare con un anziano signore. Sembra essere sul punto di scoppiare a piangere; so bene che è la paura che ti rende così, vulnerabile. In questo accampamento hanno ogni genere di prima necessità. «Portatele a chi ha veramente bisogno, noi siamo a posto.» Gli lasciamo poche cose per l’igiene personale e andiamo via. Ad occuparsi della distribuzione degli alimenti in queste zone è il Comune di San Possidonio stesso. Ha allestito un magazzino in una scuola, credo. Tutto il piazzale è piano di bancali carichi di bottiglie d’acqua. I locali interni quasi tracimano di roba da mangiare. Ancora una volta la solidarietà degli italiani si è superata. Così come all’Aquila, in pochi giorni si è scongiurato l’allarme per la sussistenza alimentare. Come all’Aquila, credo sia già arrivato anche troppo. Non vorrei si ripetessero le scene pietose che ho già visto. Non è questione di Nord o Sud, in una tale condizione di smarrimento tutte quelle cose ci cambiano, diventiamo avidi, invidiosi.
Scarichiamo entrambi i furgoni, al resto penserà il Comune. C’è altro lavoro da fare, bisogna andare in altre zone a vedere qual è la situazione, capire quali sono i bisogni reali. Con Gianluca ed Enrico visitiamo Concordia, Novi di Modena, S. Antonio in Mercadello, Rovereto sulla Secchia, Cavezzo e una piccola frazione gravemente danneggiata di nome Disvetro. Non ricordi tutti i posti, tutte le frazioni, non ricordo i loro nomi, ricordo le immagini, i volti, le parole, il caldo, la luce del sole, la Pianura Padana, il labirinto delle sue stradine comunali e provinciali.
Più andiamo in giro e più mi rendo conto che tante tantissime persone sono accampate davanti alle loro abitazioni. Dove c’è un giardino c’è una tenda, un camper, una roulotte. I miei compagni mi dicono che nelle tendopoli ci sono per lo più gli abitanti dei centri storici, molti dei quali sono extracomunitari, quelli insomma che non hanno un giardino o una rete sociale adeguata.
Nei vari campi che abbiamo visitato, tutti autogestiti (sempre perché è diffusa la sfiducia nei confronti della Protezione Civile), più o meno troviamo queste condizioni. C’è cibo e generi di prima necessità. Mancano invece tende, materassini, i materiali da campeggio insomma. Tutti pensano che l’emergenza durerà poco, non sono preparati anche mentalmente al “campeggio” prolungato. Nessuna tenda è isolata dal terreno o ha la copertura adeguata per il sole, ad esempio. Sono sufficientemente organizzati per la prima emergenza però. C’è già il referente del campo, è già chiaro con chi dobbiamo parlare per avere un quadro preciso. Chiacchierando la prima cosa che emerge è che non hanno idea di cosa aspettarsi. Sono comprensibilmente spaesati, confusi. Tanti, troppi sono già i “dice che” (le leggende metropolitane, in pratica) diffusi, dalle cause del terremoto, al grado impreciso dell’intensità delle scosse maggiori, dalle decisioni politiche ai tempi della ricostruzione. Ascolto, intervengo quando chiedono il mio parere di terremotato aquilano. Cerco di non andarci pesante, di infondergli speranza, ma di essere al contempo lucido e realista: «Vi tirerete fuori dalla merda da soli, facendo comunità, stando uniti. Non è negativo ogni intervento governativo, ma dovete stare attenti, controllare, monitorare, soppesare le promesse che vi verranno fatte. Anche se è difficile, non abbassate mai la guardia.» Alcuni hanno persino la forza (o forse lo fanno per rendersi conto di ciò che li aspetta) di domandarmi come va all’Aquila. Qui divento impietoso, ma la mia speranza è che dai nostri sbagli come cittadini e dalla negativa esperienza di interventismo televisivo-governativo possa venir fuori una lezione preziosa per loro. Anche se non c’è più Bertolaso, a capo della PCI c’è Franco Gabrielli, “un personaggio della stessa parrocchia”, anche se non c’è quel fantoccio di Berlusconi, la cultura politica affarista in Italia non è affatto cambiata.
Rientriamo al Manitese che è ora di cena. Molte strade sono interrotte e riuscite a districarsi è complicato anche per Enrico e Gialuca. Attorno al tavolo ci sono almeno due dozzine di persone. Parliamo. Del più e del meno. Della nostre vite. Del terremoto. Del futuro. Dell’Aquila. Della tragedia umana che ha seguito l’evento naturale. Il vino ed il caldo della giornata fanno il resto. Alle undici siamo rimasti in pochi. Decidiamo di andare a dormire, per quel che si può. L’agitazione è tanta anche per me, per me “vaccinato”, così mi metto a fare una lista assieme a Emanuele, un kit per il perfetto terremotato. Niente di più che qualche consiglio organizzativo per evitare di perdere tempo prezioso.
La mattina seguente (3 giugno), mi sento telefonicamente con alcuni amici. Da Roma sta arrivando Fulvio (un amico che già si fece in quattro per L’Aquila) con un carico di tende e Quadruccio (aquilano terremotato che vive a Bologna). Arrivano quasi in contemporanea. Li presento alle persone del Manitese. Si parla subito di come strutturare gli aiuti, di quello che concretamente si può fare. Bisogna progettare una collaborazione sul lungo periodo. È importante non sentirsi soli. Sia per loro che per noi, sia chiaro. Emotivamente c’è un grande bisogno in questo Paese di sentirsi uniti, di sentirsi popolo, peccato doverselo ricordare solo nelle catastrofi o quando gioca la Nazionale.
Dopo un buon caffè e aver assaggiato una birra artigianale fatta da persone disabili (se non sbaglio) facciamo il giro della grande struttura accompagnati da Bettina che ci illustra tutti i loro progetti. In me si radica l’idea che è da un posto come questo che si può ripartire. Loro possono essere un punto di riferimento per tutta la Bassa, lavorando nell’informazione alternativa, studiando le numerose ordinanze governative che in breve li sommergerà, puntando sulla ricostruzioni sociale, l’unica assolutamente fondamentale. Riprendendo il famoso slogan friulano, direi “prima le persone, poi le fabbriche, le case e le chiese”.
Verso le cinque del pomeriggio iniziamo a organizzarci per ripartire. Domani dobbiamo essere tutti a lavoro e ci aspettano almeno cinque ore di viaggio. Il distacco non è doloroso, ci vedremo presto. Torneremo. Sappiamo di avere ancora tanto da fare. Abbiamo da consigliarli. Abbiamo al contempo un mucchio di cose da imparare noi da loro. “Ci salviamo da soli”, questo ho imparato con il terremoto dell’Aquila. Ci salviamo da soli ma solamente se riusciamo a stare uniti, ritornando ad essere una comunità. Così si combatte la paura, si combatte l’ignoranza dilagante, l’incapacità del sistema, così si combatte il malaffare sempre sempre in agguato. Questo è l’unico modo per ricostruire quello che la natura, per mezzo dell’imperizia umana, ci ha portato via. In questo fine settimana abbiamo gettato le basi. Ci aspetta tanto lavoro. «Forza!»
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04/06/2012
Chiappanuvoli
[Non sono riuscito a fare foto, mi spiace]
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