Anno 2010
Durata 95′
Nazionalità Canada
Genere Horror
Regia Olivier Abbou
Tra canadesi e americani, si sa, non corre buon sangue. I primi reputano i secondi dei violenti guerrafondai, questi ultimi etichettano sovente i primi come delle fighette progressiste.
Siamo, naturalmente, nel campo dello stereotipo, in quanto è ciò di cui, drammaticamente, argomenta Territories (2010). Film simbolicamente borderline, a cavallo o quasi tra due civiltà, confini (nello specifico quello che geograficamente divide gli Stati Uniti d’America dal Canada) e attitudini mentali maledettamente agli antipodi.
Quello scritto e diretto da Olivier Abbou è un horror trasversale, capace di picchiar duro. Non tanto al corpo, quanto alla testa: ciò che offre è un sentimento derivativo della paura, che al brivido lungo la schiena o alle mani sugli occhi, antepone il rosicchiare della corteccia celebrale. Territories sfiora i modelli del “torture porn” e della “nouvelle trouille”, facendoli propri appena prima di lasciarli in un cantuccio a riposare, s’interroga attorno alla necessità dell’effetto truculento per poi rinunciarvi, dedicandosi al suo vero obiettivo: l’orrore reale e tangibile, custodito nelle profondità dell’America redneck e bifolca; diretta eredità del primo Non aprite quella porta (1974).
Abbou, dal canto suo, non necessita di motosega alcuna, bensì di 5 potenziali vittime e 2 carnefici certi, retaggio di un paese vero in quanto stereotipo, deciso a ricreare nel silenzioso cortile di proprietà la sua Guantanamo personale.
Sul confine tra Stati Uniti e Canada, ad un passo dalla salvezza, Territories piccona quel che resta degli USA pre-Obama: Camp Delta compreso. La vera America, quella contadina e tradizionale, ama le tute arancioni e sente nostalgia di Camp X-Ray come di Abu Ghraib. Tanto da replicarne, in scala, usi e costumi.
Non vi è compiacimento in Territories, né exploitation alcuna. Abbou asciuga, sporca e suggerisce. Gli interpreti, parimenti a regia e fotografia, risultano genuini e naturali, proprio come le sevizie, fisiche e mentali, alle quali vengono sottoposti. Michael Winterbottom e il suo Road to Guantanamo (2006) restano dietro l’angolo, accucciati. Nonostante ciò qui è anche peggio, semplicemente perché tutto dovrebbe essere già finito. E da tempo.
Allegoria impietosa, Territories lavora di metafora politicamente scorretta, abbandonando ad un destino infame un avvocatessa, una sceneggiatrice, un americano ateo ma dai tratti somatici e dal nome “sospetto” e un adolescente muto. Nessuna pietà, in quel container sperduto nel nulla di una fitta boscaglia, che sembra uscita da un fermo immagine di David Lynch
Peccato davvero per l’ingresso gratuito di un detective privato un po’ così, che nulla aggiunge e parecchio sottrae in termini di verismo al prodotto tutto. Già, peccato. Tutto il resto però, è d’oro massiccio.
Luca Lombardini