LA GABBIA DI GENERE
La strada è buia e deserta, in lontananza si intravede una luce tenue che fende l’oscurità.
È il faro di una macchina con a bordo 3 uomini e 2 donne che ritornano da un matrimonio in Canada.
Quale miglior occasione per dare inizio alle danze se non quella di mettere sul loro tragitto un posto di blocco molto ma molto sospetto? L’esordiente Abbou parte in discesa percorrendo i topoi horrorifici per eccellenza: ecco che durante la parte introduttiva tutta locata sul ciglio della carreggiata non passerà anima viva, cosicché i cattivi di turno potranno cominciare e terminare in tranquillità il proprio sadico giochino; ecco poi che il comparto umano (leggi: reparto vittime, ri-leggi: possibile carne da macello) si mostra eterogeneo ma sempre ancorato a delle forme più o meno ordinarie di delineazione, e quindi all’interno del gruppo troviamo il maschio forte (Kahlid), quello debole (il fratello muto), più due donne che non si segnalano per particolari guizzi, ugualmente anche i villain di turno rispondono a precise caratterizzazioni, uno assolutamente spietato, l’altro, almeno in apparenza, più sensibile (il fatto di aver salvato la vita al suo socio anni prima rende credibile il prendersi cura del pivello asmatico); ecco che sbobinando la trama ci si imbatte in situazioni proposte di routine (tipo: la legge vera che indagando sul misfatto va a far visita ai veri colpevoli chiedendo loro informazioni. Oppure: fra tutti proprio il meno adatto alla fuga trova come liberarsi, fuga che, come prevedibile, ha vita breve).
L’autore francese non vuole osare più di tanto (almeno non fino ai venti minuti finali su cui ci concentreremo tra poco) e si affida ad un pilota automatico che ad ogni modo non va disdegnato.
Non ci sarà alcunché di rivoluzionario ma la fase di adescamento sa far crescere discretamente il livello della tensione e giunge ad un pre-apice (l’ispezione rettale) che anticipa l’omicidio a sangue freddo capace di smascherare definitivamente il teatrino: quelli non sono poliziotti, e ora sono tutti volatili per diabetici.
La fase percosìdire torture non eccede in particolari efferatezze ma si fa ricordare e conferma una tendenza degli horror moderni di limitare al massimo lo spazio di azione, quindi niente più inseguimenti di argentiana memoria tra il killer e la preda, ma recintazione della vittima in zone altamente circoscritte, attuando un procedimento di estrema sottomissione che obbliga la sceneggiatura ad essere vivace e frizzantina per non scadere nel ristagno. In Territories (2010) il focus sui prigionieri nella gabbia viene gestito con apprezzabile disinvoltura evitando secche esibizionistiche e alternando il loro a set a quello dei due seviziatori, un ping pong che ancora una volta ci si poteva aspettare ma che risulta un escamotage necessario per rimpolpare la narrazione.
Una volta che i 4 vengono portati nel container e sono sottoposti a quella che forse sì, è una vera e propria tortura (musica metal + neon stroboscopici puntati in faccia), si apre il giro di interrogatori che conferma le intenzioni intuibili già in alcuni passaggi precedenti: non è banale follia che muove le ragioni di questi due tizi, ma c’è dell’altro.
LA GABBIA SOCIALE
Che l’american dream sia morto e sepolto lo si sa da un pezzo. La fiaccola della libertà è ridotta ormai ad un fiammifero che vacilla sotto le sferzate della tempesta. Tra crolli reali (l’11 settembre con annesse e ambigue campagne guerrafondaie) e crolli finanziari (Lehman Brothers e compagnia bella(?)) gli Stati Uniti si sono dimostrati un paese con i nervi molto più allo scoperto di quanto si potesse immaginare e di conseguenza il clima sociale ha cominciato a riflettere questa sottile inquietudine. Come era pronosticabile la figura di Obama si è rivelata inadeguata a fronteggiare le varie problematiche che si è tentato di arginare, ma nemmeno troppo, con notiziole pro-voto come l’uccisione (??) di Osama Bin Laden. Territories si infila qui dentro, nel preoccupante vuoto pneumatico del think big americano che una volta messo a gambe all’aria ha scoperchiato putrescenze politiche che hanno radici più profonde nel tempo. Non per niente Samuel e Walter sono due reduci della Guerra del Golfo e come per il protagonista diRed White & Blue (2010) le scorie del conflitto che hanno vissuto non solo hanno intossicato la loro salute, ma si sono depositate nella coscienza germinando in un nazionalismo feroce sostenuto da un razzismo cieco e ottuso. Non stupirà allora se la coppia di “amici” ha svolto servizio anche a Guantánamo (le tute arancioni sono probabilmente un souvenir del posto) e tiene appesa sulla parete di casa una foto-ricordo del campo di prigionia. Il processo belligerante per cui “chi non ha la mia divisa è mio nemico” (tradotto: chi non è americano, o chi pare che non lo sia, è passibile di sospetto) attecchisce con facilità nella mente di chi ha servito un Paese dilaniato dalla sua stessa opulente condotta.
I territori del titolo non sono solo quelli del confine tra Canada e USA, ma anche e soprattutto quelli di una società guardinga da ciò che non proviene dal suo stesso ventre, e l’esacerbazione di questa latente xenofobia trova aderenza nel credo dei torturatori, in particolare del capetto, che durante i faccia-a-faccia tenta di estorcere informazioni che non esistono attraverso una forma di pareidolia molto “mass-mediale” (il video sgranato che “dovrebbe” riprendere Kahlid è uno dei tanti video provenienti dal mondo islamico che immortala tutti e nessuno), ma, e val la pena sottolinearlo, la maniera del sopruso trova confessioni facili (e fallaci) come quella dell’amica che dice di aver visto il ragazzo parlare con degli uomini dalla lunga barba …
LA GABBIA SENZA LUCCHETTO
Ma questo è un film. E un film, oltre ai sottotesti sempre graditi che qua comunque ci sono, è lecito aspettarsi che abbia anche uno scioglimento in linea con quanto rappresentato fino a quel momento.
Invece il regista fa una cosa strana, lascia i prigionieri alla miseria in cui sono precipitati (li vediamo per l’ultima volta intenti a estrarre un dente marcio dalla guancia gonfia come un pallone di una delle donne) e sposta l’attenzione su un personaggio aggiunto in itinere che si presenta ad una dozzina o poco più di minuti dalla fine. Si tratta di un investigatore privato molto naif assoldato dalle famiglie dei giovani scomparsi che ha vizi non proprio raccomandabili, lo vediamo infatti farsi di eroina nella stanza d’albergo piena di ritagli di giornale e cianfrusaglie assortite, tipo la Bibbia.
La mossa oscilla ai miei occhi tra l’anticonvenzionale e l’ingenuo; la prima declinazione è dovuta al fatto che questa netta interruzione con annessa ripartenza sfugge alle consuete logiche narrative, mentre la seconda è data dal disarmante avvenimento che vede il detective venire a conoscenza delle gabbie in mezzo al bosco per conto di una visione-lisergica della figliola che gli spiffera il tutto all’orecchio.
Già non si sapeva niente dell’uomo, in più tirare in ballo anche la figlioletta e darle il compito di indirizzare il padre verso il cuore della matassa appare come un gesto che va oltre la poca avvedutezza per stabilirsi in una zona di quasi divertimento, come se Abbou avesse voluto candidamente evidenziare che la situazione createsi non aveva alcuna possibilità di soluzione, nemmeno con l’immissione di un corpo estraneo come è l’indagatore.
Se così non fosse, e quindi se davvero regista e sceneggiatore hanno pensato a questo passaggio come un vero e proprio stratagemma illustrativo, allora si tratta di un semplicistico atteggiamento nei confronti della scrittura con relativa sottovalutazione delle capacità dello spettatore che non può accettare una risoluzione (che non andrà a buon fine, tra l’altro) così scollacciata e stravagante, perpetuata inoltre fino all’ultimo fotogramma con la mano della bimba che misteriosamente porge il registratore all’investigatore moribondo.
La gabbia costruita da Abbou si basa su un impianto rodato che però non annoia, le sbarre sono sufficientemente solide per tenere in piedi la costruzione, tuttavia si palesa la mancanza di una possibile apertura che sia capace di fornire l’attesa completezza alla struttura.