Testualità, storia, letteratura. Una riflessione didattica

Creato il 13 dicembre 2013 da Spaceoddity
[OM] [L/D] Diversi problemi orbitano intorno a un dilagante analfabetismo testuale. L’alunno in media lo manifesta proponendo traduzioni prive di senso dal latino o dal greco o fraintendendo clamorosamente tanto brani antologici nella lingua madre, quanto le consegne di un problema di geometria. Anche la banalizzazione della storia in una sequenza approssimativa di “prima” e di “dopo”, o l’uso limitatissimo – e comunque spesso rudimentale – dei connettivi, è il risultato ormai endemico di una formazione che sembra non aver tenuto conto della natura di un testo. Durante il biennio, i ragazzi hanno magari avuto nozioni teoriche e astratte, sganciate però dalla possibilità di maturare un’esperienza personale e profonda in merito. Per il docente, allora, interrogarsi sul lavoro svolto nella singola disciplina (chiarimenti non dati, errata somministrazione dei contenuti, sovraccarico di consegne, ecc.) può non essere proficuo, anche perché è difficilissimo individuare le zone opache del processo educativo.
Da una quindicina d’anni in qua, nella didattica delle lingue antiche ha preso piede – con alterne fortune – il cosiddetto “metodo Ørberg”, ovvero un insegnamento del latino e del greco attraverso testi narrativi, appunto, in latino e in greco. Il corso è strutturato in modo tale da fornire progressivamente informazioni sulla vita e sui personaggi del mondo antico, notizie storiche e tutto ciò che attiene alla cultura classica (in tal senso, quest’approccio va riconosciuto all’interno del macrosistema del C.L.I.L., acronimo ormai in voga per Content and Language Integrated Learning). Non è il caso, in questa sede, di soppesare pregi o dei difetti di una metodologia parecchio discussa. Ai fini del problema che sto affrontando, va detto però che il metodo Ørberg ha il pregio di offrire un testo nel suo sviluppo: il gruppo-classe viene costretto a entrare via via in una macrostruttura attraverso porzioni più ridotte, affrontando insieme i contenuti e le strutture che la lingua stessa ha previsto per veicolarle.
Chi abbia la consuetudine di porgere agli alunni domande radicali (e in apparenza semplici) come “di cosa si parla qui”, sa benissimo che la risposta consiste perlopiù in timidi ed esangui balbettii o in affrettati e drammatici malintesi. Un macrosistema ad accesso graduale può venire in soccorso nel sostituire l’artificiosità di un apprendimento della grammatica per frasi decontestualizzate, che non è necessario davvero capire per risolvere il tranello sintattico ivi acquattato. Per affrontare una nuova porzione di testo, è necessario capire di cosa si stia parlando, chi stia parlando e magari affrontare anche le ragioni del suo agire, insomma entrare – con l’aiuto indispensabile dell’insegnante – in un meccanismo di senso che, dal nostro punto di vista, può solo essere proficuo.
Questo non per dire che il metodo Ørberg sia una panacea: non ho ancora l’esperienza per apprezzarne nel tempo i risultati, e non mi riferisco solo ai risultati per il latino e il greco in sé (e sono molti gli aspetti che possono compromettere il successo scolastico in materie simili). Quello che mi interessa in questa sede è l’importanza didattica di integrare l’educazione nelle scuole secondarie superiori al fine di formulare progressivamente una nozione sempre più matura di testualità, che consenta ai ragazzi di affrontare i legami tra sintassi e semantica, ovvero le strutture profonde e necessarie di un discorso. “Necessarie”, però, vuol dire intimamente proiettate a fornire un significato, non “inevitabili”: il datum, ovvero il testo così come gli alunni lo trovano, è un alibi estetico che dipende proprio dalla mancanza di dimestichezza dei ragazzi e da una certa pigrizia (anche di molti professori) nel lavorarci su.
L’approccio a un brano, infatti, deve essere preparato, più ancora che guidato, se il caso smontandone l’ossatura linguistica. Laddove, come nel metodo Ørberg, non esiste una continuità che è già di per sé una premessa utile al lavoro nuovo, il docente può proporre agli alunni di fare disegni, di portare musiche o quadri, insomma stimolare la creatività su un determinato tema che si ritrova subito dopo in un canto della Commedia o in un passo del Principe: ma devono essere i ragazzi a esporsi, a cercare, nei meccanismi multimediali a loro consoni, lo strumento ideale ad affrontare quell’argomento e a confrontarsi con i media preferiti dai loro compagni. Il richiamo costante ai materiali selezionati dalla classe coinvolge più facilmente tutti, con un effetto traino di probabile successo, perché orienta il clima emotivo, necessario all’empatia del brano su cui ci si vuole soffermare. In questo senso, non può esistere un manuale che sostituisca i professori nel preparare la lezione, perché questa dipende dal rapporto che si crea tra le persone in gioco ed è il caso che il docente via via allestisca una sua cartella di materiali utili al percorso didattico prescelto per il corso di letteratura che condurrà.
Un processo induttivo che si limiti al mero abboccamento “al buio” con un testo contando su un’indole intuitiva o spontanea – attraverso una sola forma di medium – è un’aspirazione ingenua e forse anche dannosa, perché non si ha un vero accesso all’opera, ma solo una serie di effimere risonanze passive. Nessun apparato esegetico può compensare l’esperienza e la cultura del docente nel progettare (a breve, media e lunga scadenza) e nell’allestire il lavoro in classe. Per parte sua, semmai, il libro di corso provvede a fornire un patrimonio di conoscenze che supportano l’incontro con il brano, tutto quel corredo di materiale che orienta la familiarità del ragazzo col meccanismo letterario e nel tempo rende coerente un processo per parte sua segnato dalle alterne occasioni concrete della didattica.
La nostra cultura soffre troppo di un difetto di narratività per non richiedere strumenti a sostegno. Le “storie” che tanto appassionano il pubblico televisivo moderno sono fatte per sorprendere, ma in linea di massima ottengono questo traguardo stravolgendo i presupposti che si credevano consolidati, con improvvisi voltafaccia della sorte o di singoli personaggi chiave. Coerenza e coesione vi sono ridotte ad atmosfere, mentre il gioco combinatorio orientato al successo di massa prevale sulle dinamiche intrinseche. La testualità, che pure prevede l’interazione con il fruitore per via dei suoi fondamenti comunicativi, va invece affrontata nella sua autonomia. L’atto demiurgico dell’espressione verbale, fondante nella civiltà giudaico-cristiana, sta alla base di un testo e si deve escludere una volta per tutte che un rapporto con un processo tanto complesso, con un altro così radicale sia prerequisito in un ragazzo in uscita dalle scuole medie inferiori.
È difficile, con queste premesse, avviare nel triennio uno studio letterario, salvo ridurlo a un accumulo di dati memorizzabili sì, ma non per questo forieri di un discorso, meno che mai di un dibattito. Al biennio si dovrebbero avviare i processi che porteranno con il tempo a una dimestichezza con il testo, che poi si realizzerà compiutamente nell’incontro con opere e autori, ovvero con brani particolari, inseriti a loro volta in una narrazione storica. Ma, ancora una volta, questa struttura che sostiene la scelta dei brani non può essere data per scontata per il solo fatto che la storia è materia del curricolo scolastico già alle elementari: in tal caso il risultato, al termine delle scuole superiori, si risolve (se e quando va bene) in una sequenza cronologica, in un inanellarsi di dati. Va costruito gradatamente un pensiero storico tra le storie letterarie e le diverse discipline, cioè va messa insieme, anno dopo anno, un’enciclopedia organica che permetta di scoprire la conoscenza nel suo svolgersi, il sapere nel suo formularsi, il pensiero nel suo esprimere il mondo.
Facendo piazza pulita della frantumazione del sapere nelle nostre scuole, non c’è nulla di strano in una lezione congiunta dei professori di matematica e di italiano nell’affrontare un problema di algebra o un testo di Galileo, dopo aver preparato ciascuno la classe sulla base del dialogo intrapreso. Esperimenti simili, lungi dall’essere eccezionali o, come talvolta accade, soluzioni a emergenze didattiche, dovrebbero costituire la base del lavoro di un professore. Il vero programma che conta è quello svolto con i ragazzi, non un palinsesto generico per gli alunni: è il lavoro congiunto in gruppo che permette ai ragazzi di crearsi quell’ossatura di senso e quelle competenze transdisciplinari che consentiranno loro, nel corso della vita, di integrare quanto riterranno opportuno, ciascuno per sé. Saranno allora preparati a incontrare i testi più diversi, da Pasolini all’analisi matematica, perfino a costruirli loro: essere protagonisti della storia che raccontano, ovvero che fanno.
(Pubblicato su «Chichibío», 67, 2013)

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