Saudade cinefila.
Da quanto mancava Tsukamoto sulle pagine di Oltre il fondo? E quanto ci mancavano le sue annichilenti sferzate registiche? (con Nightmare Detective e Nightmare Detective 2 era andato ad infilarsi, forse, in un vicolo cieco).
Mancavano mancavano, soltanto che il tempo, infedele compagno di vita, ha cambiato molte cose da quel lontano 1989, anno del primo Tetsuo, e oggi il terzo capitolo di questa saga arriva fuori tempo massimo, o al massimo in tempo per cercare di sdoganare oltreoceano (Pacifico) il proprio cinema, e la recitazione in inglese è, appunto, un passepartout per penetrare nel circuito americano.
Fuori tempo massimo perché la sensazione generale è che un film cosiffatto non serva né allo spettatore (a meno di non essere dei nostalgici del cyberpunk), né al regista stesso poiché niente si aggiunge, né si evolve, o si accresce. A parte il passaggio al digitale, la carrellata di similitudini con i due episodi precedenti è di invariata portata. Addirittura l’episodio che dà il là, la morte di un bimbo, è rintracciabile anche in Tetsuo II, tanto da farci domandare quanto e come i confini del remake siano lontani da qui.
Beninteso, sebbene oltremodo influente, poco deve interessare il fine di un progetto cinematografico nella valutazione di un’opera, che siano i soldi (ma tanto quelli ci sono sempre) o lo spirito artistico (questo invece a volte latita), ciò che si giudica è ciò che si vede, e in Tetsuo III molto è stato già visto.
Dell’evento scatenante la rabbia del protagonista ho già potuto dire, il macro argomento della trasformazione, invece, viene condito da futili intrighi con mad-doctor e compagnia bella che proprio non convincono. La trasformazione in sé, nonostante la possibilità di ricorrere (penso) a somme di denaro più ingenti, sfibra di potenza con l’uomo-pallottola che viene mostrato troppo sovente dal collo in su lasciando fuori campo quel “corpo” di tubi e metallo che rendeva i suoi predecessori degli Elephant Man del futuro, goffi e terribili esseri che però, come da titolo, mantenevano un qualcosa di umano sepolto nella ferraglia.
Lo Tsukamoto diegetico si ritaglia un ruolo strategico divenendo bersaglio della sua creatura (la X sul petto) fino a diventare parte di essa, inglobato, assorbito: l’equazione Tsukamoto=Tetsuo trova senso d’essere.
Lo Shinya sul ponte di comando sa sempre come dirigere la nave. Maestro nel montaggio, effettuato da lui stesso, egli è in grado di conferire vertigine e stordimento attraverso il mezzo stesso che si fa manifesto di un movimento tellurico, vera e propria scossa, che graffia ogni film della sua carriera, una faglia a volte più netta ed altre meno ma sempre presente come segno distintivo.
Nostalgia cinefila. Ci mancava Tsukamoto e lui ha risposto presente. C’è. Ma per gli uomini-arma è giunto il momento di ritirarsi.