Guilty of romance comincia con Mizuno Miki che fa sesso nella doccia (chissà con chi) in un Love Hotel.
E l’inizio è quanto di più appropiato per il film di Sion Sono perchè il sesso avrà grandissima parte in tutta la pellicola.
Tre storie parallele.
Izumi è sposata con un famoso scrittore ed è completamente succube del marito, per il quale vive la sua esistenza.
Quando però decide di provare a vivere una vita propria finirà per fare la modella su set pornografici e sarà proprio il sesso ad aprirle la strada verso la libertà e la consapevolezza di se.
Mitzuko è insegnante universitaria, ma di notte fa la prostituta. Anche per lei il sesso è (questa volta da sempre) il centro della sua esistenza.
Kazuko è una detective che sta indagando sul ritrovamento di un cadavere smembrato e ricomposto con pezzi di manichino ritrovato nel quartiere dei Love Hotel. Ma anche la sua vita, che sembra tradizionale, nasconde un amante e forse altro.
Sono costruisce il film in maniera estremamente complessa.
Si viaggia continuamente avanti ed indietro nella vicenda, ma è abilissimo a ricomporre i fili del discorso senza lasciare nulla al caso.
Le tre storie viaggiano parallele, si incrociano, si sovrappongono e la divisione in capitoli è assolutamente pretestuale.
Al centro della vicenda c’è il Castello, luogo per il sesso segreto e rappresentazione stessa fisica del sesso.
E di sesso ce n’è molto, crudo, duro, fisico.
Tocca a Kagurazaka Megumi (a proposito, che tette!) e Togashi Makoto soprattutto, ma anche la Mizuno ha la sua bella dose di passione.
Tutto il film è una riflessione dura sull’amore, sull’odio (chiude infatti la trilogia che lo stesso Sono definisce “dell’odio”), sul sesso come liberazione e conoscenza di se.
Il film è pieno di riferimenti e di significati da scovare.
Credo che neanche l’autore sia consapevole di quanta roba ci abbia messo dentro.
Movimenti, personaggi, volti espressivi al massimo, corpi che parlano, pioggia continua e colori che prendono spazio e diventano protagonisti.
Grottesca la scena in cui compare la madre di Mitzuko, e talmente simile (così come il personaggio) a quella in cui appare Clara Calamai in Profondo rosso che è impensabile non sia un omaggio a Dario Argento (sebbene non sia uno dei millemila nomi che Sono indica come suoi esempi).
E grottesco è anche il finale, sconvolgente, sanguinario, crudo, in cui però tutte le tessere vanno a posto, la linea temporale si ricompare e tutto diventa chiaro. Al punto che scopriamo sia l’assassino sia la vittima (rimasta misteriosa fino a quel momento).
Quindi è anche un bel thriller?
Certamente, ma a tinte talmente forti che bisogna amare anche altro per poterlo vedere.
A margine sappiate che abbiamo visto la versione completa di due ore e mezza (ed è una figata!)