Posted 19 gennaio 2014 in L'occhio sul mondo with 0 Comments
di Luca Vasconi
Le splendide spiagge, le acque cristalline di Phi Phi Islands, Krabi, Phuket, Ko Samui, paradisi del relax e della tintarella per milioni di turisti.
Le mille luci, lo street food, i mercati flottanti, i templi, l’energia, il caos e la magia di una Bangkok che non dorme mai.
La meravigliosa città storica di Ayutthaya, Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Le città di Chiang Mai e Pai, incastonate tra le montagne e le foreste del nord del paese, punte di diamante del turismo escursionistico.
La Thailandia vanta numerose attrazioni storico-naturalistiche, che unite a strutture adeguate, prezzi convenienti, spiccate doti imprenditoriali e di accoglienza dei thailandesi, fanno sì che il paese sia uno dei più visitati al mondo.
Vi giunsi con una aspettativa piuttosto bassa e una certa diffidenza dovuta ad un’innata idiosincrasia per i luoghi battuti dal turismo di massa. Il “paese del sorriso”, lo devo ammettere, seppur non sia in assoluto tra i miei preferiti, alla fine ha sedotto anche un bastiancontrario di professione come me.
Ma, come spesso accade nella mia vita e nei miei viaggi poco programmati, ci volle lo zampino del caso per farmi scoprire, grazie a un fortunato incontro, la “mia Thailandia”, un angolo poco conosciuto del paese che fece davvero scoccare la scintilla con questa terra.
Nel febbraio 2010, dopo aver trascorso in Thailandia un paio di rilassanti settimane da turista più che da viaggiatore, mi procurai senza problemi un visto a lungo desiderato e, da Bangkok, volai a Yangon, in Myanmar, trascorrendo un’ emozionante ora della mia vita su un relitto dotato di ali.
Era questa, all’epoca, l’unica possibilità di raggiungere il Myanmar, data la chiusura di tutte le frontiere via terra. Un primo tentativo di decollo abortito a motori caldi sulla pista di partenza; un’attesa di un paio d’ore per una misteriosa riparazione del velivolo; l’agognato decollo, anticipato da una rassicurantissima frase del comandante che, in un inglese non proprio oxfordiano, annunciò trionfante: “siamo finalmente in partenza, i problemi dovrebbero esser stati risolti”. Il sospirato atterraggio non si rivelò il più dolce della mia vita: al tocco di pista delle ruote le maschere per l’ossigeno del posto vuoto davanti a me precipitarono improvvisamente davanti al mio naso, procurandomi un’ultima emozione. Andò di lusso: a cedere fu la difettosa chiusura di uno sportello. Avrei scommesso sul motore di quella bara volante!
Il viaggio in Myanmar fu un’ottima idea: visitai quello che si rivelò, di gran lunga, il mio paese preferito nel sud est asiatico. Conobbi, durante un trekking, Abel, un bravo fotografo di Barcellona che mi diede basilari dritte in materia fotografica, incoraggiandomi a proseguire nella mia recente passione.
Abel, da poco tornato dalla Thailandia dove si è occupato di un bellissimo progetto con i bambini rifugiati birmani, fu decisivo nel convincermi a pensionare, una volta tornato a Bangkok, la mia macchinetta digitale da dilettante allo sbaraglio, quale ero. I suoi apprezzamenti sulle mie potenzialità fotografiche aumentarono la mia scarsa autostima fin quasi al punto da farmi sentire, con la mia nuova reflex semi-professionale di seconda mano, un semi-professionista allo sbaraglio, quale non ero.
Furono lui e Federica, la sua ragazza italiana, nel corso di una gita in barca sul lago Inle a darmi un saggio consiglio: “quando torni in Thailandia devi assolutamente andare a Mae Sot, una cittadina al confine con il Myanmar”! “Abbiamo là amici che lavorano in una ONG che si occupa di aiutare bambini profughi birmani” “ quel posto, conoscendoti, ti piacerà, fidati!”
Conoscendoli, mi fidai. E feci bene.
Mae Sot può sembrare, di primo acchito e ad uno sguardo poco attento, una normale, piccola città della Thailandia nord occidentale, come tante altre. Ma non lo è.
La città è un melting pot di razze, usi e costumi, un singolare crocevia tra la cultura thai, birmana, karen e cinese.
Dalla metà degli anni ’80, con l’inasprirsi della repressione da parte del regime birmano delle minoranze etniche Karen e Shan, iniziò una migrazione di profughi dal Myanmar verso la Thailandia. Migliaia di disperati, ridotti alla fame o perseguitati dal regime dei militari, hanno varcato illegalmente la frontiera nel corso degli ultimi trent’anni.
Oggi una moltitudine di profughi vive nei campi allestiti dalle numerose organizzazioni internazionali presenti nell’area di confine, in territorio thailandese.
In totale più di due milioni di profughi vivono oggi in Thailandia, molti dei quali nel distretto di Mae Sot.
Le loro condizioni economiche e sociali sono in media pessime. Quelli che hanno un’occupazione, sono spesso sfruttati e lavorano in nero, per paghe da fame, nelle imprese agricole e nelle industrie della zona, per lo più gestite da cinesi. Essendo lavoratori clandestini, non possono accampare diritti sulla sicurezza, su un salario decoroso o su ferie e riposi. Gli imprenditori corrompono la polizia thailandese, sfruttandoli come schiavi e non pagando alcuna tassa.
Il piccolo fiume Moei separa Mae Sot dalla cittadina birmana di Myawadi. Rigonfio d’acqua nella stagione dei monsoni, da maggio a ottobre, si riduce a un fazzoletto di terra arida nei restanti mesi, facilitando l’attraversamento della frontiera da parte di disperati in cerca di fortuna.
Un ponte chiamato “dell’Amicizia” separa il paese più ricco e prosperoso del sud est asiatico, la Thailandia, da quello più povero e arretrato, il Myanmar, così denominato da quando la giunta militare decise che il nome Birmania non era più consono, adducendo discutibili giustificazioni di origine etnica. Secondo i militari al potere, il nome Birmania (Burma) era rappresentativo dell’etnia dominante, ma non rappresentava tutte le etnie del paese.
Per questioni di fuso, le lancette dell’orologio vanno spostate in avanti di trenta minuti in favore del Myanmar. Varcata la frontiera, si ha però la netta impressione che le lancette, anziché in avanti di mezz’ora, siano state spostate indietro di quarant’anni.
Il Ponte dell’Amicizia di Mae Sot è stato per anni l’unico ingresso via terra possibile nel Myanmar. Ma per sole 24 ore. Dal 28 agosto del 2013, se provvisti di un visto, è possibile varcare il confine via terra da quattro frontiere thailandesi, tra cui quella di Mae Sot, per un massimo di 28 giorni.
Intrallazzi di ogni tipo avvengono alla frontiera tra i due paesi: traffici illeciti di armi, droga, medicinali, pietre preziose (rubini, giade, zaffiri), di teak, il pregiato legname birmano. Odiosi traffici umani, perlopiù povere ragazzine birmane arruolate per allietare i turisti occidentali con i famosi “happy ending massage”, nelle migliaia di “centri massaggi” thailandesi.
Furono giornate intense, trascorse con i bambini della Ong Colabora Birmania, in cui ho avuto modo di apprezzare il lavoro e la passione dei ragazzi spagnoli che l’hanno fondata e dei volontari che vi lavorano.
Giornate trascorse nelle vie, nei quartieri di una cittadina che, sotto una parvenza di normalità, cela un intricato mondo nascosto.
Scoprii l’affascinante quartiere musulmano della città, dove vivono famiglie di rifugiati birmani, tanto povere quanto calorose nell’accoglienza.
Cercai di capire quanto difficile e intricata fosse la convivenza di popoli appartenenti a etnie e religioni diverse. Un fragile equilibrio sociale, sempre sul punto di spezzarsi.
Pensavo di fermarmi un paio di giornate. Alla fine i giorni, intensissimi, furono dieci.
Me ne andai a fatica. Fu un tempo sufficiente per intuire, non certamente per capire, una città come Mae Sot.
Chiedetelo a Carmen, Marc, Meri e Javier, i fondatori dell’associazione Colabora Birmania, capitati per caso in questa città di confine, nel corso di una vacanza.
Pensavano, come me, di fermarsi un paio di giorni.
Han finito per dedicarci una vita… ; qui il reportage fotografico
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