THALASSA II – Italian Occult Psychedelia Festival

Creato il 06 giugno 2014 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Frutto di un lavoro a posteriori, fatto di ricerche ed interviste, quest’articolo non è solo un live report, ma cerca di essere anche una retrospettiva approfondita. Dell’evento si è parlato molto (spesso su riviste cartacee a tiratura nazionale, non solo sulle webzine), ma bisogna anche rendersi conto che alla fin fine è stato visto concretamente solo da alcune decine di persone, data la capienza ridotta del Circolo Dal Verme. Anche per questo motivo ha senso un racconto più lungo, a beneficio di chi sente parlare da due anni del Thalassa, ma difficilmente riesce a partecipare o a vedere dal vivo altrove gli artisti in esso coinvolti.

Tutte le foto sono state realizzate dalla sottoscritta. Si ringraziano tutti gli artisti per le informazioni ricevute: senza le loro risposte alle mie domande, non sarei mai riuscita a completare questo pezzo.

Due mesi fa è tornato il Thalassa Festival, l’evento dedicato alla psychedelia occulta nostrana, nato l’anno scorso al Circolo Dal Verme nel quartiere Pigneto di Roma. Dopo il successo della prima edizione, il sold out stavolta era quasi assicurato, sia per la dimensione davvero ristretta della location, sia per la crescita di un pubblico sempre più interessato al genere musicale spinto dagli organizzatori. Questa seconda edizione, però, a vantaggio dei numeri, è riuscita a mantenere ugualmente il livello alto della prima, omaggiando anche stavolta la divinità greca, personificazione del Mar Mediterraneo, che porta il nome del festival: la dea Thalassa. Il Mar
Mediterraneo è infatti il filo conduttore che lega e accomuna alcuni artisti italiani appartenenti a una cerchia ristretta, codificata da Antonio Ciarletta in un articolo su Blow Up con la sigla “I.O.P.”, che sta per “italian occult psychedelia”. Attraverso l’installazione del Re delle Aringhe (Massimiliano Amati; ne parleremo), intitolata “Muthos”, caratterizzata dalle pagine slegate e sovrapposte del libro “Le meraviglie del mare” di Colosi, ogni angolo del posto ha richiamato volutamente gli abissi.

Proprio come Atlantide, il continente sommerso, il Dal Verme si presenta come un luogo sprofondato nell’oscurità: una sala sotterranea, buia e piccola, è il buco dimenticato da tutti che, proprio perché al suo interno dà un forte senso di claustrofobia, vuoto e perdizione, sembra assomigliare tanto all’inferno che si è creato dopo la caduta di Lucifero. Questa stanza prima era una macelleria, fin da sempre quindi abituata allo scorrere del sangue dalle pareti al pavimento; adesso, invece, è interamente insonorizzata, senza sangue sotto ai piedi o sopra la testa e adibita ai concerti proposti dall’organizzazione del Circolo. Il covo perfetto, insomma, nonostante lo spazio ristretto, per ospitare un festival di musica occulta come il Thalassa, che per tre giorni consecutivi ospiterà 14 artisti e più di 80 spettatori appassionati. Non fatevi ingannare dai numeri e dalle apparenze: nessun rito satanico, nessun sacrificio, nessun reato è stato commesso durante il festival; l’unico peccato condannabile dai seguaci della Chiesa è stato forse quello di aver diffuso musica occulta come fosse un nuovo credo religioso o una nuova eresia. Quello che è successo prima o dopo, però, noi non possiamo saperlo.

Giornata In – Giovedì 3 aprile

Creapopolvsqve

Il duo romano di witch house dal nome Creapopolvsqve, composto da Valentina Fanigliulo (meglioconosciuta come Mushy) e Stefano Di Trapani (conosciuto come “Demented Burrocacao”, già membro di Shokogaz, Maximillian I°, Hiroshima Rocks Around, Porcocane, fautore di altre numerose collaborazioni o progetti singoli e autore di articoli su Vice Italia) dà inizio ai tre giorni di apnea con una performance dal forte impatto sia visivo, sia sonoro: lei vestita di nero con il volto coperto da un largo cappuccio; lui vestito di bianco con il volto coperto da una maschera nera simile a quella di Pulcinella. Strumenti analogici per lei, basso per lui.

“I Creapopolvsqve spargeranno il loro seme occulto nelle stanze del Thalassa”: è con questa frase che sui social network hanno annunciato la loro partecipazione al festival. Riferimenti sessuali non mancano nemmeno al Dal Verme, dove, sulla parete alle spalle dei due, vengono proiettati ripetutamente degli spezzoni, sottotitolati in inglese, tratti da “Spermula”, una pellicola francese del 1976 diretta dal regista Charles Matton, che parla di una setta americana che negli anni Trenta del Novecento aveva rifiutato qualsiasi forma di amore, considerato la creazione artistica come forma di male e cercato di trovare nella totale libertà sessuale l’estasi dell’essere puro. È inevitabile quindi cogliere l’immediata identificazione dei Creapopolvsqve con questa setta. L’atmosfera è molto carnevalesca, ma al tempo stesso satanica, mentre in sottofondo riecheggiano sample arabeggianti mischiati ai suoni spettrali prevalenti, che rimandano alla coldwave più fredda e all’elettronica più minimale.

Mai Mai Mai

Il secondo a esibirsi è Toni Cutrone (fondatore dell’etichetta NO=FI Recordings, membro come batterista degli Hiroshima Rocks Around e dei Trouble Vs Glue, nonché gestore del Dal Verme e ideatore stesso del Thalassa), col suo progetto solista Mai Mai Mai. Salito sul palco con il volto incappucciato da una specie di calza spessa color carne, bucata solo sugli occhi, e con il busto ricoperto da ornamenti floreali, Cutrone si circonda di strumenti vari: una tastiera della Korg, dei pedali analogici e dei mangiacassette.

La sua performance non è altro che l’esecuzione di Theta, il suo primo vinile uscito alla fine del 2013 per la Boring Machines, e la presentazione di Delta, il nuovo recente disco pubblicato per la Yerevan Tapes: un mix di registrazioni d’ambiente (field recordings di barche, del mare, della tempesta o di canti greci) e di ondate sonore di puro drone e noise. Sullo sfondo immagini disconnesse e psichedeliche raffiguranti onde del mare, pesci e pescatori moderni, prese dai documentari di De Seta sulle tonnare, appaiono come dei rullini in successione, trascinando gli ascoltatori verso un viaggio nel Mar Mediterraneo o, meglio, nel Mar Egeo, dove sarebbe nato Cutrone e dove quindi tutto inizia e poi ritorna.

Mamuthones

La band più attesa sono i Mamuthones (nome preso dalle maschere del Carnevale di Mamoiada in Sardegna), nata dal solo-project di Alessio Gastaldello (ex batterista dei Jennifer Gentle), che attira una quantità maggiore di pubblico appena inizia a suonare “The First Born”. L’atmosfera si fa subito più esoterica: canti strazianti prodotti dalla voce indemoniata di Alessio (che sembra la versione al maschile di Stefania Pedretti degli OvO), ritmi tribali creati dalle bacchette possedute di Maurizio Boldrin (leggenda del beat padovano anni Sessanta, nonché membro dei Condor e del gruppo di Pino Donaggio), distorsioni sperimentali realizzate dalla chitarra di Matteo Polato, atmosfere oniriche uscite dal bass synth di Francesco Lovison.

In attesa del nuovo, imminente disco, più cantato, nervoso e spigoloso (già registrato, ma c’è un’etichetta da trovare e una data d’uscita da fissare), eccoli tutti insieme sul palco a eseguire per circa un’ora gran parte del loro repertorio, sia vecchio sia nuovo, mentre il pubblico sembra aver subito una trasformazione: non riesce più a smettere di muoversi, come se stesse partecipando a una danza sciamanica o ad un rito propiziatorio.

Valerio Cosi

Prima degli Spettro Family, quarti in scaletta, si esibisce Valerio Cosi, il ragazzo prodigio di Taranto che nel 2005 collaborò con Fabio Orsi. Occhiali da sole e camicia a quadretti, Cosi suona il sax alto, strumento tipico del jazz, mescolandolo ai suoni elettronici ottenuti con il Mac, e senza proiezioni sullo sfondo alle sue spalle. Inizia il primo pezzo, intitolato “Vajont Naturelle” e commissionato da Calamita/à per un lavoro futuro, con i suoni jazz del sax in prevalenza e quelli digitali in sottofondo, mentre scorrono i sample contenenti un’intervista fatta dopo la tragedia del Vajont nel 1963, che provocò la morte di quasi duemila persone. Segue una coda senza titolo, concitata, con drum beats, di stampo completamente elettronico, mentre i sample rompono la monotonia del ritmo minimale attraverso una conversazione americana tenuta in strada, voci femminili radiofoniche, dialoghi da documentari anni Settanta americani.

Infine, nel secondo e ultimo pezzo, intitolato “Aguirre (In B Major: Star Aligning)”, sembra che sia l’elettronica a prevalere sul jazz. Il sax fa solo da accompagnamento ai suoni disconnessi e riconnessi al pc in maniera artificiale, robotica e futuristica. Il brano è inserito in “Plays Popol Vuh”, l’album di cover dedicato appunto al gruppo tedesco, che ha influenzato il compositore tarantino fin dall’infanzia.

A causa del mal di testa, Valerio riesce a suonare solo per mezz’ora e – già mentre si scusa per l’inconveniente – il pubblico comincia ad andarsene, probabilmente a causa dell’ora tarda sopraggiunta in un giorno infrasettimanale.

Spettro Family

La Famiglia Spettro, uno dei progetti italiani più segreti e misteriosi che ci siano attualmente in circolazione, chiude la prima serata della seconda edizione del Thalassa. Sul palco sono soltanto in due: il primo, a destra del palco, è Stefano Iannone (capofamiglia della Spettro Family e fondatore della label Vade Retro, per intenderci); il secondo, invece, non si riesce ad identificare, perché resta in disparte nell’ombra e si intravede a malapena. La non-identificazione dei membri è una prerogativa di questo progetto, che porta avanti una politica di camuffamento, per cui di fatto sul palco può presentarsi chiunque, attraverso l’uso di un abbigliamento sempre diverso e originale a ogni concerto: questa volta, Iannone indossa un paio di collant neri rovesciati in testa (effetto passamontagna) e una giacca verde militare in stile neofolk. La loro esibizione non è come tutte le altre e fin dall’inizio regalano ai pochi spettatori sopravvissuti alla serata non una semplice performance, ma un vero e proprio spettacolo. Si comincia con la registrazione di una voce femminile che ringrazia in tono estatico il dio della Luce e lo show sembra assumere fin da subito una piega critica nei confronti della religione non pagana. Iannone, infatti, facendo il gesto ironico di alzare gli occhi al cielo, congiungere le mani e abbassare la testa come fosse un inchino, sorride a denti stretti e ringrazia anch’egli il dio della Luce.

Solo dopo questa breve introduzione, quasi a sottolineare la sua fedele linea di collegamento con la religione politeista etenista tipica del genere neofolk, il musicista inizia con gli strumenti analogici che ha sul tavolo, alternando i suoni prodotti dalla drum machine a quelli del timpano e del crash, creando marce apocalittiche, a tratti tribali, che trasportano la mente dell’ascoltatore in un mondo di tradizioni antiche, così che l’atmosfera sembra essere diventata ancora più esoterica e post-industriale di prima. E alla fine, senza più riuscire a contenere l’entusiasmo, Iannone decide di spostare il timpano al centro della sala e di suonarlo in mezzo al pubblico con più vigore di prima, come se fosse anche lui spettatore del suo stesso spettacolo.

Go to top

Giornata II – Venerdì 4 aprile

Donato Epiro

La seconda serata inizia veramente alla grande grazie alla performance di Donato Epiro, polistrumentista tarantino, metà Cannibal Movie e con numerose collaborazioni alle sue spalle, che, per presentare il suo progetto solista, ha scelto di essere spalleggiato dall’altra faccia dei Cannibali, il compaesano Gaspare “Lemming” Sammartano: mentre quest’ultimo lo accompagna con un sampling pad di marca Roland, il primo esibisce tutta la sua bravura davanti a una Korg, i cui tasti sembrano dei prolungamenti delle sue dita. In occasione dell’uscita per la Black Moss, una settimana prima del festival, del suo primo lp intitolato “Fiume Nero”, che riunisce le composizioni registrate in Puglia dal 2009 al 2010 (dopo 7 anni in Toscana) e pubblicate in edizioni limitate su cd-r e cassetta, la sala si colora subito di suggestioni esotiche, tribali e africane. Come suggerisce il titolo del disco, gli spettatori sembrano immersi in un fiume e trascinati dalla corrente, verso acque più profonde e sconosciute. Basta infatti chiudere gli occhi per ritrovarsi come un pesce che sta dentro l’acquario in copertina.

Impossibile non notare la forte connessione con la library music di Piero Umiliani, con il prog degli Aktuala o addirittura con la dub techno più oscura e recente di Demdike Stare, Raime o Andy Stott, ma non mancano sonorità provenienti dalla terra di Epiro. La musica tradizionale pugliese, infatti, pur non avendo influenzato particolarmente Fiume Nero, è innata nella composizione, che risente del clima e della natura dei paesaggi di quella regione, ma è soprattutto ben presente nei concerti: il live del Thalassa, ad esempio, si conclude con una registrazione di Diego Carpitella, contenente un canto tradizionale salentino, ricoperta da bordate noise. Questo recupero delle origini, ormai quasi dimenticate, è oggetto di un interesse recente e approfondito del compositore e sarà probabilmente più evidente nei suoi prossimi lavori.

GustoForte

Il gruppo romano di Roberto Giannotti occupa letteralmente il palco con strumenti musicali da far invidia ad un’orchestra: basso, violino, chitarra, batteria, sax, clarinetto. La band, che si è autodefinita “italian antipop group”, scomparsa dalla scena musicale senza mai realmente scomparire e tornata alla pubblicazione nel 2012 dopo quasi 30 anni di assenza, si compone adesso di sei persone di età matura, che sembra ne sappiano un sacco di musica e possano fare scuola a tutti gli artisti lì presenti.

I GustoForte suonano lasciando il pubblico entusiasta, ma al tempo stesso spiazzato: nessun rumore caotico e sperimentale come quelli presenti nelle recenti ristampe pubblicate dall’etichetta Plastica Marella, ma un climax ascendente sempre più frenetico di corde e percussioni. Per chiudere in bellezza, la band ospita a sorpresa Terra Di Benedetto, degli Albergo Intergalattico Spaziale, che dà una nota di colore in più a tutto il concerto, sfoggiando le sue doti canore ed espressive molto simili a quelle di Diamanda Galás.

Metzengerstein

Con un nome tratto dal primo racconto di Edgar Allan Poe a essere dato allo stampe, i Metzengerstein sono una creatura che nasce come duo di improvvisazione dal collettivo toscano Ambient-Noise Session (che sta dietro anche ai progetti DeA e Holy Hole) e che muta forma e aspetto ogni volta. Il chitarrista e il batterista, sempre presenti, sono forse i due punti fermi, mai però gli unici: al Dal Verme sale sul palco un trio (chitarra, basso, batteria e synth vintage di marca Crumar), mentre in passato si sono viste anche quattro o addirittura sette persone, con un concerto pure tutto in acustico. Inglobati anche loro, contro la loro volontà, nella scena dell’italian occult psychedelia, amano la variazione e l’improvvisazione ma, rispetto agli albori, sono cambiati molto: se prima improvvisavano maggiormente, adesso sono più riduzionisti e preferiscono lasciare gli effetti a casa, senza usare troppi loop. Di solito ai concerti portano avanti una “scaletta”, questa volta no: alcune parti sono strutturate, altre improvvisate, ma nessuna delle due modalità prevale sull’altra.

Un’ulteriore (e forse più importante) differenza è che, rispetto al loro unico album intitolato Albero Specchio (uscito un anno fa per la label Sonic Meditations di Justin Wright aka Expo ’70 e a breve disponibile in vinile su etichetta Harsh), al Thalassa danno vita a una performance strumentale più vicina al kraut-rock tedesco che alla psichedelia “dronica” e sciamanica. Non che qui manchi l’atmosfera tribale, ricreata grazie a una lampada etnica posta al centro del palco e all’uso del sonaglio di zucca, uno strumento a forma sferoidale usato anche nei riti (appunto) sciamanici, ma su disco quest’anima sperimentale e primitiva è molto più presente. Insomma, è avvenuto un cambiamento e si sente, ma forse nel nuovo lavoro previsto in vinile per la Yerevan Tapes e su cassetta per la Kohlhaas Records il prossimo novembre, sarà ancora più evidente: registrato tutto in presa diretta, con una sonorità molto più elettrica, non sarà privo, infatti, di atmosfere emotive molto varie. Per chi, invece, li preferisce quando si esprimono in totale libertà, per l’etichetta polacca Wounded Knife uscirà una cassetta contenente una raccolta di improvvisazioni.

Dream Weapon Ritual

Il duo formato nel 2006 da Simon Balestrazzi, fondatore della famosa band post-industrial T.A.C. (Tomografia Assiale Computerizzata), e dall’attrice e cantante Monica Serra, già presente nello storico gruppo dal 1999, si divide lo spazio sul palco: lei occupa la parte a sinistra, lui quella a destra. I loro corpi sembrano attraversati da due fasci di luce, per poi sprofondare nel buio, ma in realtà quello che oltrepassa le loro sagome non è altro che il video di anteprima, assolutamente minimale (e visibile anche su YouTube) del loro nuovo album Ebb And Flow, che uscirà a settembre in vinile per Boring Machines.

Per chi non lo sapesse, il nome Dream Weapon Ritual è nato un po’ per caso, sia per il suono, sia per la combinazione delle tre parole, e un po’ per associazione a posteriori: il riferimento è il libro “Dream Weapon” di Angus MacLise, ma soprattutto il suo contributo all’Aspen Magazine #9 del 1970. Distaccati quanto più possibile dai T.A.C., che giacciono dormienti quasi in attesa di un possibile ritorno, i Dream Weapon Ritual si esprimono con una forma abbastanza personale di improvvisazione “controllata”: ognuno coi propri pattern, le proprie linee vocali, le proprie atmosfere codificate. Ogni loro concerto, infatti, non è mai uguale al precedente o al successivo: al Thalassa, per esempio, nonostante il soundcheck sia saltato a causa di alcuni problemi tecnici con il set dei GustoForte, riescono comunque ad adattarsi per il meglio alle ondate incontrollabili di feedback, modellandole con loopers e filtri, e a creare un’esibizione di elettronica cerebrale unica e irripetibile. La performance, della durata circa mezz’ora, fa infatti vibrare il pavimento, lasciando gli spettatori con le menti disorientate e i corpi paralizzati.

Psalm’n’Locker

Il solo-project di Gherardo Della Croce (moniker di Luca Garini), membro del trio torinese How Much Wood Would a Woodchuck Chuck if a Woodchuck Could Chuck Wood?, occupa la sala con un tavolino in mezzo al pubblico. Il rumore acuto ascendente e discendente, generato con strumentazione analogica e digitale, segue il ritmo di una luce pulsata bianca, che, ad intermittenza psichedelica, riesce ad ipnotizzare chiunque la guardi. Questo esperimento minimale, che prende origine dalla dream machine e dalla stroboscopia, ricorda molto quelli degli artisti anni ’80 di musica bionica ed elettronica come Maurizio Bianchi o Konrad Becker (aka Monoton), ma in realtà nasce dai fondatori del minimalismo storico (Dennis Johnson, Terry Jennings e La Monte Young) e prende le distanze da Steve Reich e Philip Glass. Un silenzio rumoroso, un rumore silenzioso: le ondate sonore e luminose elettrizzano il pubblico, lasciandolo totalmente a bocca aperta. Sembra infatti che gli spettatori ricevano delle scosse alternate di luce ed elettricità e che non riescano più a connettere il cervello alle parole.

Go to top

Giornata III – Sabato 5 aprile

Fulkanelli

Lo pseudonimo “Fulcanelli”, appartenente ad un alchimista del XX secolo mai realmente identificato e formato dall’unione delle parole Vulcano ed Helio (due elementi che rimandano ai fuochi alchemici), ha ispirato un duo musicale avente quasi lo stesso nome: i Fulkanelli, cioè il batterista Paolo “VulKan” Mongardi (ex Jennifer Gentle e Ronin, oggi negli Zeus! e nella Fuzz Orchestra) e dal chitarrista Cristian “Helio” Naldi (Ronin).

Provenienti dall’underground imolese (quindi romagnolo) e uniti da un’amicizia profonda, affondano le loro radici nell’improvvisazione e oggi ricercano sonorità più liquide, spontanee, mantriche, vibranti e mistiche, che si evolvano ad ogni performance live. Ogni concerto dei Fulkanelli, infatti, non è mai uguale ma sempre diverso: nessun pezzo prestabilito, soltanto una buona dose di improvvisazione. L’esibizione al Thalassa, proprio per la particolare ripetitività strumentale, non poteva proprio mancare: soltanto con una chitarra e una batteria hanno trasmesso un’energia rara e potente, che sembrava volesse condurre alla distruzione come base per una nuova creazione. Nonostante i vari progetti collaterali, i Fulkanelli portano avanti il progetto senza trascurarlo: il prossimo autunno, infatti, uscirà il loro nuovo disco.

Lay Llamas

Un gruppo composto da ragazzi giovanissimi, che sembrano appena usciti dal liceo, sale sul palco guidato dai più cresciuti Gioele Valenti e Nicola Giunta: sono i Lay Llamas, il cui nome sembra spagnolo ma in realtà è un gioco di parole fra il ‘delay’ (l’effetto eco), il Dalai Lama (la guida spirituale buddista) e il lama (l’animale). Per chi non lo sapesse, Nicola Giunta è un “nostro” collaboratore, motivo per il quale non garantiamo la totale obiettività. Nato come progetto solista di quest’ultimo verso la fine del 2011, Lay Llamas (senza più l’articolo davanti) è oggi un duo siciliano emigrato per metà al Nord e composto dal bassista Nicola Giunta e dal cantante Gioele Valenti. Durante i concerti però, così come in occasione del festival Thalassa, questo duo si trasforma in una vera e propria band, accompagnata da tre ragazzi della provincia di Treviso che hanno già suonato insieme in svariati progetti garage e noise: Matteo Pin alla chitarra, William Zancan alla batteria, Gianluca Herbertson al synth e al sampler.

L’impressione è subito quella di musicisti ben affiatati, che, pur suonando soltanto da alcuni mesi, sembrano essere persino abituati a registrare anche i pezzi in studio. I Lay Llamas presentano il nuovo disco, intitolato Ostro, come il vento che spira da sud nel mar Mediterraneo, fuori adesso per Rocket Recordings (l’etichetta londinese il cui marchio spicca su produzioni neo-psichedeliche come quelle di Gnod, White Hills, Teeth Of The Sea e Goat), registrato nella sicula terra natia, nei pressi degli antichi insediamenti greci di Selinunte e Segesta, e allestiscono un vero e proprio rito collettivo psichedelico, creando un’atmosfera calda, selvaggia e sciamanica, segnata anche dalla voce di Gioele Valenti. Il suo è una sorta di canto-ululato (grazie al quale lo spirito del Grande Serpente che aleggiava nella prima tape può tornare fra i vivi), che richiama l’attenzione degli spettatori, ipnotizzati da sonorità così primordiali.

La Piramide di Sangue

Finalmente siamo giunti al gruppo più atteso dell’ultima serata: La Piramide Di Sangue. Dopo mezz’ora di impazienza, durante la quale il pubblico è arrivato a spingersi pur di superare la fila e accaparrarsi i posti migliori, i sette componenti, guidati da Gianni Giublena Rosacroce (Stefano Isaia, cantante dei Movie Star Junkies), hanno invaso il palco come fosse loro fin dal principio. Il nuovo album del gruppo, Sette (come i sette componenti del gruppo, come i sette peccati capitali o come le sette sataniche) in quel momento deve ancora uscire, dunque il pubblico del Thalassa ha la fortuna di sentirne la tracklist in anticipo.

Mentre vengono eseguiti pezzi sia del vecchio disco Tebe, sia di quello nuovo, con sonorità esotiche e orientaleggianti, si assiste a una danza sciamanica nordafricana, in cui gli spettatori, stregati dall’incantatore di serpenti che invece del piffero suona il clarinetto, sembrano muoversi tutti insieme a piedi scalzi sulla sabbia scottante del deserto. Un gruppo che dal vivo sa eseguire i propri pezzi come se si stessero ascoltando su disco, che sa coinvolgere il proprio pubblico come pochi riuscirebbero a fare e che sa arrangiarsi e sfruttare gli spazi delle location in cui suona: al Thalassa, ad esempio, non sono mancate bacchettate contro la tubatura posta sopra il soffitto della sala, quasi a ricreare un’atmosfera ancora più primitiva e tribale.

Vostok Lake

Nato in un luogo sconosciuto, il progetto di Diego Manfreda, amico di Roma Est, ormai quasi sempre accompagnato dallo sperimentatore Simone Pappalardo, chiude in bellezza la seconda edizione del Thalassa e per l’occasione coinvolge anche Giovanni Romagnoli, che presta la sua voce. Siccome non fa tante performance dal vivo, ma si occupa più di installazioni e sonorizzazioni, vedere Vostok Lake al Thalassa è un’occasione più unica che rara, nata dalla necessità di esprimere uno sfogo più intimo, lontano dai tanti e diversi progetti collaterali anche mainstream che Manfreda porta avanti nella sua vita quotidiana. È un po’ come se, durante i concerti, Vostok Lake si trasformasse in Mr. Hyde per esprimere la sua interiorità più repressa. Non solo si trasforma, ma anche i concerti cambiano: gli strumenti, ad esempio, precostituiti da Pappalardo, sono sempre diversi e vengono pre-assemblati e utilizzati appositamente per quel live specifico. Al Thalassa, nel buio pesto più totale, senza alcuna proiezione, ma soltanto con un piccolo led come unica fonte luminosa, che produce però più suono che luce, sperimenta sonorità che rendano l’anomalia del lago di Vostok, da cui questo progetto prende appunto il nome.

Go to top

Installazione del Re delle Aringhe

Uno spazio appositamente dedicato va alle installazioni di Massimiliano Amati alias Re delle Aringhe, che, per aver contraddistinto con originalità entrambe le edizioni del Thalassa, meritano non poca attenzione. Le differenze tra la prima e la seconda installazione sono molte, ma ci sono anche tante somiglianze. Quella della prima edizione, intitolata “Plenum” (dal nome della parola greca omonima che indica la continuità delle particelle che compongono i tessuti umani), si sviluppava su un nastro continuo di 4mt x 1,15 di carta giapponese da plotter, che era appeso lungo la parete più grande del Dal Verme, ad accompagnare i visitatori verso la sala interrata
adibita ai concerti, e che rappresentava l’evoluzione morfologica di una sagoma umana (quella di un palombaro) in un animale marino fantastico, sospeso nelle profondità dello spazio acquatico (interpretato dallo sfondo bianco della carta). Inoltre, una maschera, costruita in collaborazione dell’artista Krikki e composta da una foglia di palma secca e tessuti vari, era stata sospesa in aria agganciata al soffitto, segnando lo spazio come ulteriore momento “enigmatico” del festival.

L’installazione della seconda edizione, invece, intitolata “Muthos”, si compone stavolta di una serie di pagine tratte da un libro di Giuseppe Colosi del 1943 intitolato “Le meraviglie del mare”, che, slegate e ricomposte in quattro rettangoli di 4×4 coppie di pagine attaccate sulla parete più lunga del locale, hanno ricreato una superficie “narrante” attraverso un’operazione di riscrittura dell’immaginario scientifico del libro con cui, grazie ad interventi di sovrapposizione e modifica, si è ottenuta una nuova cosmogonia di forme e parole. Sulla parete opposta frontalmente è stato creato un trittico, ovviamente modificato, utilizzando delle tavole colorate del libro che contengono elenchi di animali marini. Il risultato, in entrambe le edizioni, è stato spaventosamente eccellente: chiunque, entrando in quel locale, ha osservato le pareti, rimanendo folgorato dalla bellezza di quei disegni che, ispirati all’arte grafica dei bestiari medievali e ai quadri di Bosch, creavano un’atmosfera in bilico tra realismo e mistero.

Il merito del successo di questa seconda edizione del Thalassa non va solo agli artisti, protagonisti principali delle tre serate, ma anche all’organizzazione del Dal Verme, da chi faceva i cocktails marziani a chi spillava le birre artigianali al bar, da chi si occupava del soundcheck e montava la strumentazione a chi si occupava del mixer e regolava i suoni, che ha arricchito le serate con la distro Boring Machines di Onga e con l’allestimento del Re delle Aringhe.

Il pubblico di quest’anno, sempre più interessato e affezionato, ha dimostrato interesse anche dopo la fine del festival, inaugurando una sorta di “nostalgia Thalassa” attraverso la pubblicazione di video e registrazioni sui vari social networks.

Il Thalassa si è ormai ufficialmente affermato a pieni voti come uno dei migliori festival che ci siano in circolazione nel nostro Paese, non solo per gli amanti del genere esoterico, ma per tutti quelli che s’interessano alla musica sperimentale e d’improvvisazione. È un festival, insomma, da non perdere. E chi se lo fosse perso, nel 2014 come nel 2013, può sempre recuperare il prossimo anno, con la terza edizione non ancora ufficialmente annunciata ma già implicitamente desiderata.

Share on Tumblremailprint

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :