The Abramovic Method

Da Mixedmediait

Sabato 24 marzo, mi sono recato al The Abramovic Method, in mostra al PAC di Milano.

La mostra era rappresentata in realtà dalla performance artistica della Abramovic, escludendo una sala tributo a “The Artist is present” in cui Marina fissava per sette ore e mezza i visitatori del MOMA di New York e una piccola retrospettiva video di approfondimento sulla sua poetica e i suoi lavori. Il resto degli spazi erano esclusivamente per l’esibizione.

Fatti salire noi spettatori sul piano rialzato, munito di binocoli e telescopi per poter osservare i dettagli delle persone, è entrata Marina che dopo una breve spiegazione sulla performance è uscita di scena abbandonando i suoi improvvisati performer con 33 euro in meno nelle tasche, alle formidabili assistenti.

Dopo una preparazione fisica, i protagonisti sono stati accompagnati a gruppi a sedersi su sedie impreziosite da minerali, stare all’impiedi sotto magneti o distendersi con del quarzo affianco. In questo modo la Abramovic dilata il tempo e lo spazio, concentrandosi su un presente lungo e silenzioso, momento di raccolta che dovrebbe spingere tutti a sentire, ascoltare, capirsi, tramite un percorso esperienziale lungo, statico e soprattutto criptico.

La performance è stata dunque noiosa. Terribilmente noiosa. Così noiosa che risultava ai miei occhi incredibilmente interessante. Non che mi aspettassi un concerto di Madonna, ma di sicuro pensavo che le riflessioni e le emozioni sarebbero state più immediate.

Mi è parso come se l’Incomunicabilità dell’arte contemporanea fosse la vera protagonista. Il percorso esperienziale dei protagonisti/opera d’arte non può essere compreso facilmente: noi spettatori non sappiamo cosa queste persone stiano provando, se non da piccoli dettagli, espressioni del viso e movimenti gestuali talvolta impercettibili e ben visibili tramite l’ingrandimento reso possibile dai binocoli. Mi è sembrata tutta una grande metafora: l’essere umano giunge dinanzi a un’opera d’arte contemporanea e spesso e volentieri si trova davanti qualcosa di cui non comprende assolutamente la tecnica, il messaggio, il potenziale speculativo. È la croce e delizia delle performance artistiche.

Egli, infatti, può forse cogliere qualcosa tramite l’interpretazione soggettiva, una piccola parte degli intenti e dei motivi, ma spesso e volentieri ne resta basito e se ne allontana incerto, fingendo a volte di aver capito, giudicando anche troppo facilmente. Lo spettatore, quasi superfluo, serve invece alla performance come se fosse necessario all’esistenza della performance stessa, Marina infatti si è espressa così sull’argomento:

“Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perché, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”

Per ingannare quel tempo che sembra non scorrere, Marina dilata il presente, rendendolo un lungo attimo immobile scandito solo dal rumore di un pendolo che ci ricorda che invece esso non si ferma mai. Fondamentalmente non ho la pretesa di giudicare il valore di Marina Abramovic da questa performance. Anche perché nel suo caso (ma non solo il suo), la performance artistica non è altro che un percorso esistenziale che dura decenni composto da diverse tappe e che vanno sempre considerate nell’insieme e mai singolarmente per poter acquisire un minimo di senso. Perché la poetica per un artista è secondo me ciò che veramente lo rende tale. Non credo però che questa sia stata la sua speculazione migliore. Anzi, mi ha dato l’idea di essere abbastanza arrabbattata e sebbene con plurimi piani di lettura, un po’ superficiale e in alcune considerazioni evocate abbastanza ovvia. E poi non ho amato che la presenza dell’artista (davvero ridotta) sia costata ai partecipanti tre volte tanto rispetto a quella senza il suo intervento, soprattutto alla luce delle cose che Marina ha esternato in modo spicciolo a Quelli che il calcio qualche domenica fa.

Consiglio vivamente di dare uno sguardo al documentario nelle sale superiori sul lavoro della Abramovic negli anni passati. Vale quasi da solo tutta la mostra.


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