La finestra che Oppenheimer apre si affaccia su un baratro profondissimo, una gola nera dove il presente ha eroicizzato i sicari. In preda a quello che appare come un delirio collettivo, Anwars Congo e soci vengono idolatrati pubblicamente e perfino invitati in televisione per discutere tronfiamente della realizzazione del progetto in cui sono coinvolti, e loro, immarcescibili e privi di rimorso (o quasi), si cullano sulle proprie imprese che ri-perpetrate e ri-viste nel salotto di casa diventano l’occasione giusta per mostrare ai nipotini quanto era bravo il nonno; il gesto brutale, mitizzato dalla telecamera (addirittura un “morto” ringrazia il killer di averlo ucciso!), diviene simulacro storico, l’esaltazione dell’orrore, della prevaricazione, della violenza, illumina il lato oscuro della Storia evenemenziale indonesiana, le riproduzioni da b-movie di pessimo rango non sono altro che inconsapevoli confessioni, boomerang che ritornano brutalmente al mittente. Il lavoro di Oppenheimer si carica di un duplice ruolo perché riesce a smontare il sistema criminale in modo pacifico grazie all’accondiscendenza dei diretti interessati, giocando d’astuzia e facendo leva sull’ego di chi non conosce il significato della parola umanità, e parallelamente scrive un magistrale trattato documentaristico che sonda in totale libertà gli antipodi del cinema, realtà e finzione, opponendoli e sovrapponendoli, attualizzando l’oscuro passato tramite un’azione di denuncia e di teoria.
E il cinema, in modo sorprendente, si erge come ultimo baluardo di un’etica per l’uomo poiché è grazie ad esso che i gangster, per la prima volta dai tempi delle efferatezze, si pongono dei quesiti di ordine morale, come se il rivedersi nei panni di spietati assassini smuovesse la loro coscienza dormiente, al punto che Congo, impossibilitato a proseguire la rappresentazione di un omicidio, si ritrova sul luogo dei delitti a rigurgitare una matassa che, a sua insaputa, si annidava dentro di lui da molto tempo.