The Act of killing di Joshua Oppenheimer, visto al Milano Film Festival ed in uscita il prossimo 17 ottobre, racconta dell’eccidio di oltre mezzo milione di oppositori (definiti comunisti) da parte degli squadroni della morte indonesiani quando Suharto – mai nominato per tutta la pellicola – salì al potere.
La scelta del regista è netta: a raccontare quanto è accaduto non saranno le vittime od i loro parenti, ma gli assassini. Ci porteranno nei posti in cui hanno ucciso e torturato, dove hanno bruciato case e stuprato donne, ci racconteranno come lo facevano e come decidevano chi uccidere. Metteranno in scena i loro incubi (in perfetto stile asiatico) e si alterneranno nel recitare le parti di vittima e carnefice, essendo così costretti, per la finzione scenica del film, ad immedesimarsi con le persone ammazzate.
Il director cut è di quasi tre ore e ci mostra l’Indonesia, un paese dove, a cinquant’anni da quei fatti (il colpo di stato è del 30 settembre 1965), i carnefici di un tempo sono ancora temuti e osannati.
I nostri protagonisti sono i gangsters – parola che torna in modo ossessivo, accompagnata dalla spiegazione che si tratta di una bella parola, che significa “uomo libero”, “free man” - ovvero Anwar Congo e Adi Zulkadry. La location è Medan (Sumatra del Nord).
Anwar e Adi sono due caratteri diversi. Di Congo seguiremo il ravvedimento, con tanto di scena (quella dello strangolamento) ripetuta due volte, a inizio e a fine della pellicola, con due stati d’animo diversi. Adi è più conscio. Anche quando era un gangster sapeva di sbagliare. Lo ha sempre saputo. Ma non vuole assumersi le sue responsabilità: ha ucciso persone innocenti, lo sapeva e lo sa. Fine.
Si raccontano le violenze etniche sui cinesi (Adi ne uccise a centinaia, a casaccio, compreso il padre della sua fidanzata di allora) e soprattutto sui contadini e sui comunisti. Ora molti gangster di un tempo fanno parte della Pemuda Pancasila (un’organizzazione paramilitare, di fatto una sicurezza privata) e taglieggiano ancora i commercianti, vivendo di quello, di fatto di mazzette. Inquietano le parti di film dedicati alla Pemuda Pancasila, una superpotenza in Indonesia (tipo Comunione e Liberazione in Italia): in molti vi sono affiliati, compresi molti ministri.
Il film è molto particolare nella presentazione. Infatti reca un altro film al suo interno, con le ricostruzioni dei crimini di Anwar, che ha ucciso oltre mille persone. Ricrea i suoi crimini con l’ausilio dei suoi amici, secondo i generi a lui preferiti (e che vanno per la maggiore in Indonesia): gangster, musical e western, con i saturi colori di moda in Asia.
Durante questo documentario immaginifico, i personaggi sviluppano le loro idee e la loro posizione sul loro passato: si sentono in colpa, oppure sono fieri dei crimini commessi (che li rendono temibili) o ancora reputano che un film come quello che sta venendo girato possa essere pericoloso, perché mostra che il genocidio fu – appunto – tale, mentre, sino ad oggi, in Indonesia i massacri del ’65 sono visti come una lotta contro il nemico intestino. Non contro un partito che sino al giorno prima era legale e faceva legittima attività politica.
Written by Silvia Tozzi