Provaci ancora Marc, potrebbe essere il titolo del secondo capitolo di The Amazing Spiderman. Che, va detto, chissà se si farà e, nel caso si faccia, chissà con quale nome alla regia. La missione era di quelle davvero impossibili. 1) Riportare sugli schermi la storia dell'Uomo Ragno, quando ancora negli occhi non si sono spenti i volteggi di Tobey Maguire, o la rossa chioma di Kirsten Dunst. 2) Doversi acclimatare in un ambiente, quello del cinema supereroistico, che il ciclone del Batman firmato Nolan ha completamente ridisegnato (per giunta in meglio). 3) Scansare gli strali dei cinefili da una parte e dei fan dall'altra, consegnando alla folla un prodotto dotato di vita propria e, al contempo, rispettoso dell'originale fumettistico.
Viste le premesse, poteva andare molto, molto peggio. Sarebbe ingeneroso non lodare la qualità visiva delle immagini, la straordinaria fluidità con la quale si sono rese le piroettes del nostro eroe su e giù per i grattacieli della Grande Mela. Si pensi alla visione in soggettiva (tridimensionale per giunta) delle gru che, nel finale, si allineano per facilitare il passaggio di uno Spidey non proprio in forma, grazie alla quale ci sembra per un attimo di essere noi quelli sospesi nel vuoto, aggrappati al filo di una ragnatela. É la spettacolarità delle scene d'azione il fiore all'occhiello di un film che, per il resto, delude su più fronti. Zero ironia, con la notevole eccezione del cameo di Stan Lee, tranquillo e gioviale nella sua biblioteca ad ascoltare musica, mentre sullo sfondo il cattivone Lizard e uno zampettante Spiderman se le danno di santa ragione. Non c'è spazio per i gustosi intermezzi ludici della passata trilogia, per lo sbraitare esilarante di un Jonah Jameson, o per la gag del supereroe costretto a prendere l'ascensore perchè gli si è esaurito il lancia-ragnatele.
Ma partiamo dalla sceneggiatura. Qui cominciano i dolori. Pare che Marc Webb non sia quel che si dice un fanatico di comic-books, e si nota. Non ha capito che, in fondo, un po' tutte le storie di supereroi sono, in varia misura, dei reboot. Con il loro bastimento carico di traumi personali spesso legati all'infanzia, come la morte di un proprio caro, il dovere morale di utilizzare i propri poteri straordinari per un bene collettivo superiore a qualunque altra cosa e la fila di tribolazioni e pastrocchi amletici che ne conseguono. Ha ragione la professoressa che, a un certo punto del film, spiega come tra tutte le trame immaginabili, alla fine, una sola conti davvero, quella che scaturisce dal quesito del quesiti: chi sono io? O, per continuare sul filone shakespeariano: essere o non essere?
Non tanto la domanda, quindi, dovrebbe interessarci, quanto le diverse risposte che a questa possiamo dare. Preso dalla smania di infondere un'impossibile verginità ad un territorio che reca ancora fresche le tracce di una recente esplorazione, Webb si preoccupa prima di tutto di attingere ad elementi diversi rispetto a Sam Raimi, ma dimentica di dar corpo e voce alle fondamenta tematiche del protagonista. Semina intrecci ma si scorda di districarli, cosicché, quando alla fine tutti i nodi (la morte e l'oscuro passato dei genitori, la spasmodica caccia all'assassino di zio Ben) vengono al pettine, è costretto con un odioso epilogo a posticipare le soluzioni ad un ipotetico sequel futuro. La questione della ricerca dell'identità e il mantra etico delle “grandi responsabilità” sciorinato dallo zio Ben non vengono adeguatamente sviscerati. Okay i superpoteri, ma dove sono finiti i superproblemi?
Spiderman di Sam Raimi
Così esordiva nel primissimo Spiderman la voce narrante di Tobey Maguire:"Chi sono? Sicuri di volerlo sapere? La storia della mia vita non è per i deboli di cuore. Se qualcuno ha detto che era una bella favoletta, se qualcuno vi ha raccontato che ero solo un tizio normale senza una preoccupazione al mondo, quel qualcuno ha mentito. Ma ve l'assicuro: questa, come qualsiasi storia che valga il racconto, è a proposito di una ragazza. Questa ragazza. La ragazza della porta accanto: Mary Jane Watson. La donna che ho amato fin da prima di cominciare ad apprezzare le ragazze. Vorrei potervi dire che sono io quello accanto a lei".
Poche parole e già il nostro amichevole supereroe di quartiere risultava simpatico, familiare, simile a noi. Anche lui, come tanti, innamorato. Anche lui, forse soprattutto lui, vittima prediletta del bullo della scuola. Raimi raccoglieva al volo l'intuizione vincente alla base personaggio: l'eccezionalità a misura di perdente, ecco chi è, e deve essere, l'occhialuto Peter Parker. Nulla a che vedere con il vanesio, irascibile e, quel che è peggio, tremendamente irresponsabile, Spidey di Andrew Garfield, che riesce a conquistare il cuore dell'amata neanche a metà pellicola e che, per l'intera durata del film, sembra non veda l'ora di rivelare a tutti che sì, è lui l'artefice di tante prodezze.
Emma Stone è Gwen Stacy
Quanto può raccontarci un bacio? L'eroe del 2002 si calava dall'alto, a testa in giù, e si offriva indifeso alle labbra di Kirsten Dunst. E' proprio vero, il primo bacio non si scorda mai. A distanza di dieci anni, ritroviamo un Peter Parker versione machissimo cowboy che, lanciando una ragnatela a mò di lazzo, cattura e trascina a sè la sua bionda preda. Se la Dunst era riuscita ad infondere una credibile complessità alla fragile ed insicura Mary Jane, Emma Stone fa troppo reginetta di bellezza, troppo capo cheerleader per rendere davvero giustizia alla secchiona Gwen Stacy. Non va meglio sul fronte villain. Peccato che qui il lucertolone schizofrenico alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde interpretato da Rhys Ifans faccia rimpiangere non solo l'indimenticabile ghigno luciferino di Goblin (William Dafoe), ma persino la moderata malvagità del Dottor Octopus di Alfred Molina. "Ogni film vale quanto il suo cattivo. Dato che gli eroi e gli espedienti tendono a ripetersi di pellicola in pellicola, solo un grande cattivo può trasformare una buona prova in un trionfo", scriveva il critico Roger Ebert.E allora, il non proprio Amazing Spiderman di Webb non sarà un trionfo (e neanche una buona prova a dirla tutta), ma certo può considerarsi uno degli esemplari più rappresentativi di un certo cinema mainstream contemporaneo, con i suoi reboot opportunisti e i suoi mirabolanti siparietti stereoscopici ad occultare desolanti deserti narrativi.