Due bambini nudi si accarezzano in un bosco.
No, non sono i goffi protagonisti di Maladolescenza (1977), ma Adamo ed Eva secondo Angyali üdvözlet (1984), film ungherese diretto da András Jeles, misterioso regista magiaro classe ’45.
Due ragazzetti perché tutto il film è pasolinianamente girato con attori non professionisti, nello specifico bambini. Esatto, piccoli bimbi di età compresa fra gli 8 e 12 anni alle prese con ruoli adulti, storici, dolenti.
In pratica dopo aver seguito le note vicende accadute nel Giardino dell’Eden, un lucifero dai capelli biondi mostra in sogno ad Adamo quello che sarà il futuro: l’Atene della Grecia classica, Bisanzio, Keplero a Praga, i tumulti rivoluzionari francesi, la Londra vittoriana. Si illuminano specificatamente le zone d’ombra dell’uomo futuro che, come recitano le parole dell’incipit, è lo stesso di quello passato poiché tutto il tempo è eternamente presente.
Ammesso che sussista qualche rimando a Pasolini (La ricotta, 1963), va detto che qui non è assolutamente pervenuto il neorealismo, anzi la direzione intrapresa da Jeles è perfettamente agli antipodi lavorando a spron battuto su figure metaforiche che trovano come provocazione base quella di utilizzare dei bambini (sempre gli stessi) a monumento dell’ora, dell’adesso, moniti per una razza in cui il diavolo non deve metterci né capo né coda ma gli basta osservare, a volte anche dispiaciuto.
L’erto sentiero del surreale, quindi, si inerpica su colline ancestrali, originarie come il Peccato, dove i (mis)fatti rimano a vicenda sotto vesti diverse ma sempre uguali se spogliati della loro collocazione Storica.
Difficile parlare di storia, però. Perché l’intento di “congelare” il tempo con l’immobilizzazione del presente crea una confusione visiva non da poco, e se non fosse per le scritte che segnano il passaggio da un’epoca all’altra si farebbe fatica a distinguerle. Vieppiù che, oltre alla riproposizione degli stessi attori-bimbi nelle varie ambientazioni che poi, anch’esse, non sono altro che una ed una sola location, la sceneggiatura è totalmente assoggettata ad un montaggio che fa di tutto per confondere le idee, troppo sconnesso per dare significazione, velato di sensi troppo grandi per la sua sconnessione. Il Bene e il Male sono sempre cose troppo grandi, a patto che non se ne parli banalmente, e comunque non è questo il caso.
Tuttavia The Annunciation piace. Si fa piacere perché l’estro che si avverte dietro la mdp stupisce. Si capirà poco o niente del narrato ma sul piano visivo non è di certo opera nebulosa, anzi acceca per la sua eloquente potenza estetica nella quale brillano le scene di gruppo che attraverso la prospettiva di personaggi in primo piano ed altri sullo sfondo creano una video-ludicità (/lucidità) quasi da non credere. E poi: teste che emergono dalla sabbia, il velo di una donna come filtro in una soggettiva, bambole ventriloque, giganti (o uomini?) scrostati, un topo enorme che ripete sempre la stessa cosa. Gesù Cristo miniaturizzato, come il suo martirio.
Miriadi di trovate, di scappatoie, di scorciatoie, di vicoli ciechi, The Annunciation è un’opera che destoricizza pur raccontando la Storia, sperimentale fino all’ultimo fotogramma, talmente pregno da sembrare vacuo.
Inessenziale, squisitamente inessenziale.
Curiosità super curiosa.
Guardate un po’ queste due immagini. Che déjà-vu direbbe Dumont!