The Artist di Hazanavicius: Back to the future?
Creato il 06 agosto 2012 da Saramarmifero
Inizia con un urlo. Un urlo senza voce. La musica che si sente è quella di un'orchestra che, come accadeva nei roaring twenties, accompagna dal vivo le immagini proiettate. Ma l'inganno dura poco. Dentro, davanti e dietro lo schermo in cui scorrono i fotogrammi dell'ultimo lavoro della star George Valentin (Jean Dujardin), The Artist è inequivocabilmente un film muto. Non per necessità, bensì per scelta, secondo un anacronismo stilistico che lo avvicina, piuttosto che ai classici della Silent Era, cui tuttavia viene ossessivamente fatta allusione, a certe parodie sperimentali degli anni '70: si pensi al bianco e nero di un Frankestein Junior o all'omaggio dell'Ultima follia di Mel Brooks alle commedie slapstick di Mack Sennett e Buster Keaton, rigorosamente mute, in cui l'unica parola di tutta la pellicola (“No!”) viene pronunciata, in un geniale paradosso, dal celebre mimo francese Marcel Marceau. La prospettiva non è quella di un ritorno alle origini, ma di un ammiccamento alla contemporaneità a partire dal passato. A ben vedere, la sfida di The Artist sta tutta nel tentativo di fare di un viaggio in retromarcia un film proteso in avanti, innovativo. Il tutto all'insegna di una referenzialità erudita, ma non pedissequamente filologica (i titoli di testa imitano, erroneamente, quelli riservati all'epoca al genere noir), che non lesina strizzatine d'occhio citazioniste a tutte le più grandi opere sfornate in quel di Hollywood a cavallo tra gli anni '20 e '30: il cane attore de L'uomo Ombra, Quarto potere per la galleria di squallide colazioni che scandiscono la lenta rovina del matrimonio del protagonista, Cantando sotto la pioggia e Viale del tramonto per la parabola del divo ripudiato dall'avvento del sonoro, E' nata una stella per il personaggio dell'irresistibile starlette Peppy Miller (Bérénice Bejo), la trovata chapliniana dell'abbraccio con la giacca (poesia per gli occhi, si veda la foto), il montaggio alternato alla Griffith con cui si articola il racconto dell'ascesa della giovane promessa del nuovo cinema parlante e, parallelamente, il declino del vecchio astro Valentin. A quest'ultimo, il duo Hazanavicius-Dujardin (già noti al di là delle Alpi per l'operazione vintage di OSS 117, con cui regista e attore facevano il verso ai vari James Bond), regala un'anima da inetto e un corpo da Frankenstein. Un po' Douglas Fairbanks, un po' Charles Kane e un po' Norma Desmond, George è inizialmente un attore adulato. Come per il collega a quattro zampe Uggie, al divo manca giusto la parola. Ma siamo alla fine degli anni '20 e nessuno sembra preoccuparsene. La musica cambia, letteralmente, quando il cinematografo impara a far sentire la sua voce e, all'appello della modernità, non tutti sapranno rispondere. Con l'inevitabile sopravanzare del sonoro - che la straordinaria scena dell'incubo ci restistuisce per quello che è alle orecchie dell'afono protagonista, un'invasione di rumori assordanti - Valentin fa la figura dell'ultimo dei Mohicani: un attore che si rifiuta di parlare, non tanto perché incapace di farlo, ma, semplicemente, perché per lui, come per noi spettatori, il mondo stesso è muto e, nell'invenzione filmica di The Artist, resiste pervicace all'avvento del verbo cinematografico dopo decenni di silenziosa, anche se non meno fulgida, preistoria. La scelta stilistica alla base del film diventa metafora, letterale, dell'inettitudine connaturata al protagonista, della sua incapacità di adeguarsi ai cambiamenti. Soltanto l'amore - e l'intervento di un eroe (il cane), che non fa distinzione tra vita e palcoscenico, dimostrando in entrambi la sua natura coraggiosa e fedele - riuscirà a salvare il dinosauro George dall'estinzione. É a suon di tip-tap, nel passo a due finale, nell'eco dei leggendari Ginger Rogers e Fred Astaire, che finalmente egli riesce ad articolare la risposta giusta. Una risposta fisica, prima ancora che verbale, quasi si volesse far risalire l'origine della settima arte alla purezza corporea della performance attoriale. Il povero Valentin si libera così dalla trappola del muto, sua croce e insieme delizia dell'abile regista francese, che si diverte invece a mettere in cortocircuito codice linguistico e codice visivo con una serie di gustosi equivoci ad uso e consumo dello spettatore (e della suspance). Quando la didascalia recita “bang!”, cosa sta a significare? Un colpo di pistola o un incidente d'auto? Quando termina la proiezione di un film, perché non si sentono gli applausi del pubblico? Perché stiamo guardando un lungometraggio muto o perché la proiezione non è stata gradita? Questi e altri motivi fanno di The Artist un esemplare raro e, tuttavia, non estraneo alle tendenze del cinema d'autore dei giorni nostri. La patina retrò di tanti film contemporanei (un esempio per tutti: Drive), gli anni che trascorrono all'indietro nella vita di Benjamin Button, gli andirivieni di Owen Wilson da un secolo all'altro in Midnight in Paris, il viaggio cosmico di The tree of life in un abisso inestricabile di presente, passato e futuro. Il sentimento del tempo - inafferrabile e al tempo stesso manipolabile con la finzione narrativa - è forse il comune denominatore in questi anni di crisi globali e tumulti tecnologici?
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