Lo stesso momento storico è oggi al centro di “The Artist” opera leggera di Michel Hazanavicius, lungometraggio che si richiama più alla grazia di un ”Cantando sotto la pioggia” che alla cupa metafora di Billy Wilder e che, pur non ambendo alla grandezza dei due modelli di riferimento, riesce tuttavia a trovare una sua strada non banale, collocandosi a metà fra un colto omaggio al cinema della silent era e una sincera, quanto affettuosa, meditazione sul significato attuale di artista, nel senso più pieno di artefice di autentica espressione estetica. Perché la forza di “The Artist”, film sul muto girato come un muto, sta tutta nell’orgoglio con cui esibisce il proprio anacronismo senza però per questo rinchiudersi nello snobismo di un’operazione elitaria o cinematograficamente autoreferenziale, benché abbondino le citazioni di almeno un ventennio di storia del cinema. “The Artist”, che racconta di una star del muto incapace di adeguarsi all’avvento del sonoro così come all’amore che gli si offre, è un film incantevole innanzitutto per quel suo librarsi naturale fra cinefilia e cinema popolare, un’opera in cui ogni gesto, pantomima o cartello coi dialoghi (oltre a un accompagnamento musicale ricercato e dolcissimo) contribuisce a creare un arazzo emozionale da cui è difficile non essere avvinti. Hazanavicius infatti utilizza le tecniche del passato per stabilire una connessione inedita con gli spettatori del presente e nel far convergere tradizione e modernità, mito e avanguardia, vuol ricordarci in fondo che le esigenze del pubblico sono rimaste, da oltre un secolo, sempre invariate: ridere, commuoversi e rendersi complice del gioco. E in un panorama come quello attuale, con una industria cinematografica costantemente impegnata a sfidare se stessa attraverso la ricerca continua sul mezzo (leggi 3D) o a promuovere il divismo di tante star o starlette senza spessore, il messaggio lanciato da un film leggero come una piuma rischia di atterrare pesante come una pietra.
Così un attore poco conosciuto come Jean Dujardin, più noto al pubblico francese come comico televisivo, si trasforma in “The Artist” nella star George Valentin, viso emblematico a cavallo della storia (del cinema), miracolosa incarnazione sospesa fra la guitta fisicità di un Douglas Fairbanks e il fascino luminoso di Gene Kelly, mentre la sua performance, già clamorosamente fra le più celebrate della stagione, diventa divertita allegoria di un divismo assai più autentico, di quell’artist completo a cui la pellicola allude fin dal titolo. Perché in fondo Dujardin è un po’come la Desmond di Sunset Boulevard anche se a lui viene offerta l’occasione di una catarsi positiva in luogo della luttuosa dissoluzione mentale (e di celluloide) cui va incontro la diva. Permane quindi il contesto tristemente noto di quella Hollywood che ridusse anzitempo le sue prime icone a statue di cera (l’avvento del sonoro fu anche una strada lastricata di follia e paranoia per molte star precipitate improvvisamente nel dimenticatoio) anche se, entro uno schema narrativo poco più che abbozzato, il tono scelto resta sempre quello di una commedia che vuole celebrare essenzialmente il vitalismo del cinema (muto e non solo) attraverso le sue forme più congeniali, espressioniste o barocche. Trionfano dunque la gag visiva che rievoca Buster Keaton (memorabile quella con lo strepitoso attore “cane”), il romanticismo puro ed esagerato (come lo splendido corteggiamento fra la bravissima Berenice Bejo e… un attaccapanni!) e, naturalmente, il musical che, come già accadeva in “Cantando sotto la pioggia”, sembra essere l’unica strada verso il riscatto e la rinascita, il solo genere che permetta al divo ancora prigioniero del passato di ricongiungersi gioiosamente col proprio presente oltre che con l’amore della vita. Solo in una sequenza avviene che il film abbandoni la leggerezza per lasciarsi andare all’incubo: quando il povero George Valentin, dopo l’avvento del sonoro, si trova ad agire in un paesaggio in cui tutti, dal bicchiere al cassetto, dal cane alle comparse, hanno una voce (o un frastuono) mentre solo dalla sua bocca non viene articolato alcun suono. Ma è solo un sogno per l’appunto, destinato a svanire non appena sveglio, poco prima che la realtà intorno a lui torni nuovamente ad essere racchiusa in un dolce, quasi amniotico e naturalmente artistico silenzio.