Regista: Steven Silver
Attori: Ryan Phillippe, Malin Akerman, Taylor Kitsch, Neels Van Jaarsveld, Frank Rautenbach
Paese: Canada, Sudafrica
Un inizio, quello di “The Bang Bang Club”, non certo dei migliori. Diciamo anche uno dei peggiori. Nella loro debolezza, in realtà, le prime parentesi settano il livello di tutta la prima parte, e oltre, della pellicola su un livello davvero basso. Sembra che si punti principalmente a rendere accattivanti i personaggi nella maniera più superficiale possibile, dipingendoli come giovani uomini sprezzanti del pericolo, irresistibili e che se la tirano anche un po'. Perché a qualche “uhh” tra il pubblico più giovane non si può mai rinunciare. In particolare, nella sequenza che per la prima volta li vede all'interno del bar in cui normalmente si ritrovano, parte una manica di sventole che metà bastano. Una per ognuno dei tre, di lì a poco quattro, fotografi, e ognuna di esse con la sua entrata in scena ad effetto.
Fotografi. Per la precisione fotografi di guerra. I quattro protagonisti sono infatti i membri di quello che venne in seguito chiamato, per l'appunto, “Bang-Bang Club”, ossia il gruppo che forniva immagini degli scontri in Sudafrica al “Johannesburg Star”. Il periodo è quello dei primi anni '90 e delle guerriglie in strada per l'Apartheid; le stesse che hanno permesso ad uno dei membri, Greg, di vincere il premo pulitzer per uno scatto poi ovviamente divenuto celebre. La pellicola si concentra quindi sulle vite dei quattro fotografi, cercando di raccontarli e di raccontare il loro percorso.
Come probabilmente risulta chiaro dalle prime righe scritte, quel “cercando” non si risolverà affatto nel trovare qualcosa, pur tendendo a sfumare nel prosieguo l'esagerazione iniziale. Se l'intenzione era quella di descrivere caratteri tronfi e sprezzanti del pericolo nei quali si nasconde una personalità intaccata dagli orrori della guerra, infatti, la pellicola avrebbe in seguito dovuto mostrare una forza introspettiva affatto indifferente, della quale però non vi è neanche l'ombra. Ad essere palese, invece, è il voler conquistare lo spettatore con trovate di facile presa, ed è inutile sottolineare quanto deleterio sia per una pellicola che racconta simili orrori e le conseguenze degli stessi su chi ha guardato la guerra negli occhi per anni. I caratteri appaiono posticci fin da subito ed aprire attraverso gli stessi finestre empatiche su quanto accade diviene decisamente arduo. Le interpretazioni non aiutano di certo. Al netto di Taylor Kitsch, non del tutto convincente ma con degli occhi espressivi al punto di salvarlo in più di un'occasione, nessuno dei restanti tre dà al suo personaggio un minimo di spessore. Ryan Philippe nello specifico, peraltro protagonista, sembra completamente al di fuori della pellicola, tanto che ogni sua espressione è pressoché nulla (oltretutto alla costruzione del film ha partecipato proprio Greg Marinovich, il personaggio da lui interpretato, ma Philippe comunque sembra non aver sfruttato la cosa a suo vantaggio).
Per assistere ad una ricerca maggiore dell'elemento introspettivo bisogna aspettare parecchi minuti, durante i quali, al di là di qualche scambio assolutamente debole e non sostenuto da una struttura filmico-narrativa, la pellicola vive della spettacolarizzazione insita nelle sequenze degli scontri. La ricerca, tuttavia, si mostra nuovamente improduttiva. A smuovere l'interesse è la storia in sé dei 4 fotografi, che funziona già di suo, specie con i risvolti drammatici che seguiranno, ma la resa cinematografica degli stessi continua ad essere assente. Non ci si sintonizza con il loro stato d'animo, i loro dubbi, né con le loro sofferenze. Un documentario sarebbe stato senza dubbio più emozionante e meno irritante. E non basta di certo qualche domandina buttata lì (“ma cosa sto facendo?”) per rendere l'effetto devastante provocato da un bombardamento giornaliero degli orrori descritti. Qui ci si limita ad una cronistoria (non è un caso che il regista abbia un passato di soli documentari) male interpretata e goffa nel suo non riuscire a dare spessore, in cui la narrazione viene sacrificata gratuitamente, neanche in nome di qualcosa. Non resta quindi molto, se non l'interesse verso i fatti reali che hanno visto protagonisti i quattro fotografi. Se il soggetto non fosse tratto da una storia vera, in tutta probabilità non si riuscirebbe nemmeno a portare a termine la visione.