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Jeremy Gardner è uno sconosciuto come tanti e, come tanti altri wannabe che esordiscono nel cinema e non possiedono ancora il giusto equilibrio per sgomitare con stile, sembra strafare presuntuosamente caricandosi di obblighi e incarichi tipici di autori indie che vorrebbero ma non possono, eppure fanno lo stesso inseguendo concetti di arte solitamente abbastanza discutibili: produce, scrive, dirige e interpreta, senza contare le intuizioni musicali che devono essere passate molte volte nel suo stereo. I soldi sono pochi, con un budget di 6.000 $ oggigiorno puoi comprarci a malapena il catering per la troupe e invece Gardner, al suo primo colpo, spreme ogni risorsa, fa della povertà una grande ricchezza e dopo quindici giorni di riprese si esibisce in un headshot perfetto e invidiabile che molti colleghi iperprodotti e palestrati dovrebbero invidiare mentre consumano un caricatore dietro l’altro.
The Battery è un’anomalia non solo nell’ormai puzzolente cinema zombie, è una sintesi miracolosa di ciò che l’horror può ancora produrre senza tanto bramare mete impossibili o mirando a obiettivi eccessivi: qui si parla di pura, immacolata bontà narrativa, e per fortuna che qualcuno ancora si ricorda di cosa serva prima di tutto per fare un buon film. Okay, è pur sempre di un film di zombie, sventrando The Battery di tutto ciò che lo arricchisce è questo quello che rimane, ma Gardner non se ne avvantaggia per facilonerie o spacconate anche comprensibili, sfrutta l’elemento soprannaturale con saggezza, lo affronta con genuinità, non lo appesantisce né lo sovrastruttura di dettagli inutili, ricrea un post-apocalisse come tanti e racconta di due giocatori di baseball che spartiscono le tante avversità e sono costretti a diventare amici. La bellezza di The Battery però non si trova soltanto su un comodo livello di sfruttamento dell’orrore per parlare d’altro, ciò che ricrea meravigliosamente Gardener è quello che tanti autori non riescono nemmeno a inquadrare, sono troppo impegnati a cercare l’orrore, a rinforzarlo o comunque a metterlo davanti a tutto, a dargli spessore sanguinolento e chissà quale mitologia aggressiva quando ciò che stordisce di più, ciò che davvero tramortisce con violenza, è la semplice umanità.
Umanità è la parola chiave per descrivere un film incredibile come The Battery, e si rimane ancora più impressionanti vedendo come sia un autore del tutto esordiente (il vero esordio, una sceneggiatura risalente a dodici anni fa (!) di un film visto da nessuno, probabilmente non vale), ad aver creato tanta ricchezza, pare impossibile che senza un’adeguata esperienza in ritmi, contenuti e meccanismi Gardener sia così maturo e pronto a dare una visione così meravigliosa.
L’orrore che devono affrontare Ben e Mickey è risaputo, gli zombie che calpestano questa zona di mondo umida e sudata sono carcasse inermi, a malapena si reggono in piedi, sono facili da evitare e da uccidere e trovano forza soltanto nel numero. Non è su questo che vuole puntare Gardener, eppure già la sola componente horror, pur secondaria e molto, molto limitata per le chiare intenzioni della pellicola, è sorprendente: la sola, interminabile parte conclusiva rende The Battery visione non solo fondamentale ma qualcosa da cui attingere e imparare, registi, sceneggiatori e gli stessi spettatori avrebbero molto da studiare tanto nell’intensità narrativa quando nella scelta visiva di Gardener. Non credo si possa parlare di tecnica registica, qui non abbiamo a che fare con virtuosismi, simmetrie e grandangoli impossibili, trovo però molto interessante e di gran carattere il suo minimalismo e la costante ricerca di intuizioni particolari utili a esaltare lo sfiancamento dei protagonisti: l’essere rinchiusi in una station wagon, un cerchio di morti che ne blocca le uscite, il caldo, la stanchezza, l’ansia che si trasforma in noia, tutto questo crea uno strato di tensione e sofferenza che esplode e tocca livelli per me di difficile sopportazione quando Gardener si lancia in un long take di almeno dieci minuti con cui immortalare la funzionalità di un film di zombie, e in generale un film horror, privo del suo orrore protagonista, relegato a una semplice ma devastante e insostenibile presenza invisibile.
Scegliere di far parlare i personaggi è mossa squisita ma difficile, è altissimo il rischio, in un genere così affollato e ormai senza alcuna sorpresa, di dedicarsi ad argomenti che per spuntarla devono puntare in alto per poi precipitare alla prima riflessione (ho smesso di seguire The Walking Dead all’inizio della stagione due, ma a quanto leggo in giro continua ancora disperatamente a inseguire certa intelligenza discorsiva mostrandosi invece basso e di nulla stimolazione cerebrale). Un personaggio enorme come Ben trasuda carisma in pochi accenni, è una persona pura, onesta, trasparente, un uomo che a incontrarlo nella vita reale non ti annoieresti mai, avrebbe sempre un argomento da mettere a tavola ma anche nei silenzi ci si potrebbe sentire a proprio agio. La sua sincerità è motore trainante della pellicola, commuove la genuinità con cui aiuta Mickey nelle difficoltà che questa nuova vita impone, mi ha fatto in qualche modo sentire bene l’energia sprigionata dalla sua essenzialità, tanto nel soccorso quanto nella durezza, Ben ha capito come funziona questo mondo e pur vivendolo soffrendo, la scorza che lo ricopre gli di guardare avanti con un’energia disperata che invece Mickey non possiede, ancora troppo ancorato alla vita di una volta per poter resistere adesso da solo, ha costantemente bisogno delle musica per annientarsi dal mondo esterno e cullarsi all’interno di un guscio che non riesce a schiudere.
Ad accompagnarli e a rendere spero immortale l’espressività di Ben è una colonna sonora nostalgica, solo brani rock di scarna strumentalità ma caldissima atmosfera per sottolineare momenti alticci e felici ad altri di sofferenza e tragicità: non conoscevo i Rock Plaza Central ma si sono rivelati band incredibile per lo splendore evocato in poche note, canzoni brevi e una voce di toccante intensità.
Dispiace quindi pensare che gran parte del pubblico finirà per definire The Batteryuna pellicola priva di storia e che si concentra su momenti abbastanza ordinari accumulando inutili minuti di girato (quando Ben e Mickey si lavano i denti, sequenza in realtà di straordinaria normalità), un film noioso perché non succede niente, gli zombie si contano sulle dita della mano ed è troppo lento per meritare attenzione. Per me non è niente di tutto questo, è opera diretta con eccezionale personalità e più di ogni altra cosa superbamente narrata, nei suoi 101 minuti incorpora tutto quello che si dovrebbe cercare in un horror ma che troppo spesso si tende ad accantonare per accontentarsi di poche briciole. Spero solo che Gardener non abbandoni la materia: nel cinema del terrore, e non solo, ha molto, molto da dire.
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