Innanzitutto la trasposizione sullo schermo dello scrittore lusitano (autore del racconto a cui si ispira questo corto dell’uruguaiano Etcheverry) pone la sua presenza al confine tra diegesi e non, inoltre, con le ammissioni che candidamente fa di fronte allo spettatore, Saramago si estromette idealmente dalla storia inventata da lui, ma nella parabola narrativa questa storia è concreta e tangibile aldilà del suo volere (lui è solo un testimone), il portoghese infatti afferma che non è mai stato capace di scrivere favole, e noi ci crediamo perché la favola che vediamo è tale grazie al cinema.
I contenuti confluiscono nel piccolo fiore che, grazie alle cure del protagonista, diventa il fiore più grande del mondo, ma a monte ci sono almeno un paio di riflessioni più sotterranee da spulciare: come la figura del bimbo che ben rappresenta l’incanto dell’infanzia dove la gioia di scoprire non può essere fermata da un muro, ed anche uno scarabeo stercorario (sparring partner tenerissimo che rincara di comicità il corto) riesce a solleticare l’attenzione verso una natura che, come abilmente suggerito dal regista, non sembra riguardare la vita del Nostro rinchiusa com’è in un giardino prospiciente un cantiere in cui campeggia il cartello “pericolo”.
L’afflato ecologico, mattone concettuale dell’opera, si realizza in due azioni (umane) antitetiche: da una parte il padre estirpa, dall’altra il figlio irriga, dona acqua, quindi spinta vitale. E da qui si diffonde una morale, e allontanate qualunque accezione negativa da questo lemma, che dribbla l’uso delle parole (e Saramago lo sa!) per affidarsi alle immagini, una in particolare: il petalo che delicatamente ricopre l’attore principale di una storia che è sì inventata, ma che al contempo sa in-segnare tante cose del mondo, di noi, e di noi nel mondo.