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Quelli del sud suonano meglio. Almeno nel rock. Se occorreva una riprova bisognava essere all'Alcatraz di Milano la sera del 3 luglio per l'ennesimo passaggio in città dei Black Crowes di Atlanta. Non c'era il tutto esaurito, si stava bene e spaziosi e per una volta l'acustica dell'Alcatraz si è dimostrata all'altezza di un evento di levatura internazionale, il giusto compendio per un concerto eccezionale, straordinario, esaltante, che ha messo una volta di più i Black Crowes sul piedistallo delle più grandi rock n'roll band della storia.
L'ultima volta che erano passati da noi era l'estate del 2011, a Vigevano, per un concerto torrido ed intenso ma troppo breve, un'ora e poco più di show. Questa volta hanno suonato due ore esatte, dalle 20.30 alle 22.30 ma tutti i presenti avrebbero voluto che il concerto si prolungasse per un'altra mezz'ora o un'altra ora perché quello che si è sentito all'Alcatraz non è cosa che capita di sentire e vedere tutti i giorni, non è la normale amministrazione del rock, anche di quello più famoso che riempie gli stadi o l'ultimo fenomeno del momento e magari bisognerà aspettare altri due o tre anni per assistere ad un concerto così tosto, impetuoso e bello, dove si vive una speciale euforia interiore che non capita sempre, perché una droga la si può comprare ma questa euforia che nasce dentro naturale non è facile provarla, non sempre è a disposizione di sensi e cuore. E' capitato la sera del 3 luglio, il passato ed il presente che si fondono in una specie di santificazione laica del rock n'roll, dove canzoni che parlano di fratellanza, di pace, di salvazione, di umanità, cantate da un Chris Robinson che con le sue movenze dinoccolate e la sua voce spiritata delira come un predicatore del soul e del sud, trovano accompagnamento in una band dal sound sporco, febbricitante, urgente ma anche estatico e a tratti visionario . C'è tutto quello che serve per andare in paradiso nella musica dei Black Crowes: le unghiate del British Blues, i riff degli Stones, la potenza dei Led Zeppelin, la sensualità del soul, il ritmo della musica di Memphis, il botta e risposta di due chitarristi favolosi, le jam degli Allman, l'acustica agreste del country-blues, le slide mettalliche del Delta, i voli pindarici dei Dead, i sognanti paesaggi pastorali dei Traffic all'esordio, l'ugola arsa di alcol e negritudine del primo Rod Stewart, la gagliarda mmediatezza dei Faces. Insomma, una enciclopedia del rock derivato dal blues, concentrata in due ore di show ed in quindici canzoni, tante quelle presentate la sera del 3 luglio.
I Black Crowes sono tornati a Milano con la stessa formazione di Vigevano ma con un cambio importante, al posto di Luther Dickinson adesso è Jackie Green, rocker e songwriter californiano con qualche buon disco solista alle spalle, a far compagnia a Rich Robinson con le chitarre. La differenza è sostanziale, con Dickinson erano due chitarristi blues in azione, Dickinson dava una forte impronta roots al sound della band, con Jackie Green l'impasto è più equilibrato, il sound risente di un maggior tasso rocknrollistico, è tagliente, urgente, scavezzacollo, come se avessero messo un Keith Richards in formazione così da controbilanciare il tocco bluesy ed allmaniano della Gibson di Rich Robinson. Anche Green suona la Gibson ma la sua chitarra è sferzante, bruciante e cattiva e la si sente in tutta la sua efficacia quando regala un assolo da brividi, lungo e liberatorio in una incandescente versione di Wiser Time, la migliore mai sentita dal sottoscritto, l'inizio bucolico e "sospeso" con il piano di Adam McDougall a fare da intro e poi via verso i saliscendi di una ballata ora morbida ora incalzante, che prende la via della jam, si incasina, si apre a tutta una serie di orizzonti, idilliaci prima e sulfurei poi e quando ritorna nelle amene colline della Georgia mi fa venire in mente il "clima" di Brothers and Sisters degli Allman. E'stato uno degli highlights di un concerto potente come pochi ma di una potenza lucida, perentoria, illuminante, dove le cantilene esasperanti della messianica voce di Chris Robinson, ripetute come una ipnosi gospel, ad un certo punto si inerpicavano in tesi, ossessivi e nervosi scatti di ritmo, che come un elicoide si attorcigliavano attorno al refrain di base creando una specie di trance che immancabilmente portava il pubblico eight miles high. Micidiali, estasi e furia, un sound che viene giù dal palco con una compattezza unica, una potenza di fuoco che vede Chris nel ruolo di sciamano, attorniato da due chitarristi che se la giocano e se la sparano come facevano Keef e Taylor nel tour di Exile dei Rolling Stones ed un sezione ritmica che sposa funky e R&B come si è insegnato nelle università della Stax e dei Muscle Shoals, oltre ad un tastierista che riempie tutti gli spazi lasciati liberi dagli altri con un suono magmatico e fluente. Bastava la sequenza di una "tribale" Medicated Goo, magnifico ripescaggio dai Traffic di Last Traffic, della farneticante Soul Singing, della immensa Wiser Time per andarsene a casa felici e contenti ma poi sono arrivate una sberla come Thorn In My Pride, altro highlights dello show, la micidiale Remedy ed il knock out finale di Hard To Handle fusa con Hush di Joe South per rendere ancora più evidente che i Black Crowes sono quello che rimane dello spirito originario del rock n'roll offerto nella sua definizione migliore e più matura. Già all'inizio si è capito che i Corvi avrebbero fatto sul serio e difatti la partenza non lasciava dubbi, Jealous Again, Thick n' Thin ed una arruffata versione di Hotel Illness riallacciavo i legami con due dei loro album più amati, il primo omonimo e The Southern Harmony eccetera eccetera, poi i due episodi acustici di She Talks To Angels e Whoa Mule, acustici per modo di dire perché il tappeto elettrico sotto lo intrecciavano basso e tastiere e sopra Chris prendeva l'acustica e venivae rapito dalla sua omelia soul, Green imbracciava il mandolino lasciando la chitarra acustica a Rich e Steve Gorman abbandonava un attimo i tamburi per le tabla, facevano pensare ad una parte tutta all'insegna del country-blues come è nel recente vinile Wiser For The Time o sull'esempio di Croweology. Niente di più errato, con Thorn In My Pride tornava la tempesta e i Corvi rivolavano alti sopra le nuvole, portando con se un pubblico sempre più osannante e lievitato, fino all'immancabile bis, una semiacustica No Expectations degli Stones da far risorgere Brian Jones ed una contorta ed un po' lisergica Movin'On Down The Line, altro estratto da Warpaint dopo Whoa Mule. Finale sontuoso per un concerto straordinario che lasciava un briciolo di amaro in bocca solo perché si sarebbe desiderato un' altra ora in paradiso. Ma Chris Robinson non è Springsteen, purtroppo.
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