(The Blair Witch Project)
Regia di Daniel Myrick, Eduardo Sanchez
con Heather Donahue, Joshua Leonard, Michael Williams.
PAESE: USA 1999
GENERE: Horror
DURATA: 81’
Burkittsville (già Blair), Maryland, 1994. Tre ragazzi, nei boschi per girare un documentario su una strega torturatrice di bambini, scompaiono. Un anno dopo vengono rinvenuti i nastri di ciò che hanno ripreso. I registi (Myrick e Sanchez) si sono limitati a montare in ordine cronologico il materiale.
Tutto pauroso, terribile, angoscioso, ma anche assolutamente, irrimediabilmente, dichiaratamente “finto”. Preceduto da un battage pubblicitario senza precedenti, che ha coinvolto soprattutto il web (sul sito del film la storia era spacciata per vera), è un finto documentario molto realistico – gli attori interpretano se stessi – che, costato 35mila dollari, ha guadagnato 300 milioni. Si tratta di un film diretto “per delega” (Morandini): ogni sera, i tre attori trovavano nel bosco degli appunti con scritto ciò che avrebbero dovuto fare il giorno seguente. La pensata è senza dubbio geniale, ma il successo è arrivato anche per altri motivi: a) l’alone misterioso che circondava il film già prima della sua uscita, appositamente costruito in sede di marketing; b) il pubblico “giovane” si è immedesimato alla perfezione nei personaggi, tre studenti che filmano con apparecchiature di cui tutti oramai dispongono; c) la paura che lo compone si basa essenzialmente sull’atavica paura del buio, e infatti è un film di paura in cui “non si vede nulla” (non v’è un solo fantasma che non sia fuori campo). Il “gioco” ci può stare, e almeno due sequenze fanno saltare sulla poltrona, ma bisogna guardarlo con lo spirito giusto, ovvero: sorbendosi gli interminabili dialoghi e le liti tra i protagonisti, accettando di ascoltare i loro battibecchi al buio (con telecamera a luce spenta), sopportando immagini sgranate e movimenti di macchina a mano imprecisi che fanno venire la nausea. Abbastanza noioso, mediamente pauroso, ridicolo quando cerca la riflessione sociale sul potere dei media e l’ottica della visione. È un brutto film, più interessante per il COME che per il COSA (più che i critici, dovrebbero recensirlo i semiologi), ma che tuttavia rappresenta un qualcosa di nuovo – e infatti è stato subito imitato e riproposto in tutte le salse – nel panorama del cinema dell’orrore. Vale come documento, più che come arte. La tecnica della camera a mano diverrà comunque una moda, capace di originare quintali di epigoni (tra cui pochi soddisfacenti, come lo strepitoso Rec). Ruggero Deodato pensò di querelare i produttori perché secondo lui la tecnica della camera a mano era una sua invenzione (avete presente l’abominevole Cannibal Holocaust?), ma lasciò perdere dopo aver constatato il successo del film. Un penoso seguito nel 2000.