Se nella seconda metà degli anni ’50 Gioventù bruciata di Nicholas Ray rappresentava i primi tentativi di ribellione giovanile nei confronti delle ormai sclerotizzate strutture genitoriali e I giovani arrabbiati di Tony Richardson portava sul grande schermo le difficoltà di coppia di una generazione allo sbando, ora sembra quasi d’obbligo chiedersi come, non solo la società, ma soprattutto il cinema, debbano rispecchiare le forme contemporanee di espressione dei ragazzi di oggi. Tralasciando le tinte edulcorate dei vari Twilight e High School Musical, dove è più che evidente come l’industria del video abbia pateticamente tentato di dar voce ad una generazione di teenager acqua e zucchero del tutto virtuale, pare ormai ben chiaro che la nuova popolazione giovanile 2.0 basa la propria esistenza su due fondamentali punti focali: la notorietà e l’apparenza. Due elementi tra loro inscindibili che affondano le radici tanto nella cultura pop della televisione e dei videoclip quanto nella ormai dilagante necessità, nata con i social network, di raggiungere fama e visibilità ad ogni costo, anche grazie ad azioni non proprio encomiabili. Insomma; una generazione dove ciò che appare è ciò che conta, e quanto più si è popolari ed al centro dell’attenzione tanto più ci si sente in armonia col mondo del consumo e dell’apparenza. Strutture dogmatiche trainanti di questo mercato-chiesa del visibile sono le star, icone indiscusse di bellezza, comportamento e soprattutto dell’essere. Materia oscura e pericolosa quanto affascinante, che nelle mani di una (ormai) esperta di dinamiche adolescenziali come Sofia Coppola sfocia in un prodotto filmico che senza modestia e falsi elogi appare come uno dei più sottili, intelligenti e originali spaccati dell’attuale generazione giovanile.
Perché infatti The Bling Ring, presentato con successo nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes 2013 dove ha raccolto elogi e l’approvazione di pubblico e critica, non è un semplice e convenzionale film di teenager turbolenti sul modello di Porky college e affini, ma è un’analisi a 360° su usi, costumi, sentimenti e idee religiose dei giovani alle prese con i modelli irraggiungibili di perfezione e di estetica consumistica che vengono loro proposti dai media. Partendo da un fatto di cronaca, che ha visto nell’estate del 2010 un gruppo di ragazzi (soprannominati appunto The Bling Ring) introdursi e svaligiare le ville di alcune grandi star tra cui Paris Hilton, Orlando Bloom e Lindsay Lohan (i quali hanno volentieri ri-prestato le loro abitazioni per le location) per poi postare su Facebook le loro gesta, il lungometraggio si concede numerose e succulente digressioni sull’universo giovanile, rappresentandone fedelmente, seppur mediando con le esigenze del mezzo cinematografico, le pratiche rituali che vanno dal classico uso di sostanze stupefacenti all’ormai onnipresente ossessione di narrare la proprio esistenza all’interno dei social network, senza disdegnare una sana e ricca dose di ammiccanti occhiate al mondo della moda, con una vera e propria sfilata di borse griffate, abiti cool e chi più ne ha più ne metta, in una cacofonia degna della più perfida opera di marketing pubblicitario (nemmeno troppo subliminale) che farà di sicuro la gioia delle spettatrici in età adolescenziale.
Abbandonando ormai le tinte psicologiche e amorose dell’opera di esordio Il giardino delle vergini suicide e le strabilianti steccate di umorismo surreale di Lost in Translation, la regia della Coppola, ben salda e attenta sotto l’egida di papà Francis anche se ormai matura e indipendente, si tinge di venature kitsch e spruzzate di psichedelia da video musicale, supportata, oltre che da una sceneggiatura praticamente perfetta, anche dal serratissimo montaggio di Sarah Flack e dall’ottima fotografia patinata e volutamente esagerata di Harris Savides. I costumi poi diventano loro stessi materia narrativa e allo stesso tempo personaggio, e grazie all’esperienza e alla visionarietà di Stacey Battat, essi diventano un tutt’uno con le sorprendenti scenografie (reali per giunta) delle ville da star. Sono dunque Gucci, Prada, Versace e Ray-Ban i veri protagonisti, ed è su di loro che la regista cuce il tessuto della storia, tanto che si ha l’impressione (forse voluta) che tra gli sceneggiatori vi siano anche Valentino o Dolce & Gabbana. La Coppola compie poi un ulteriore miracolo di tecnica, accompagnando il film con una strepitosa colonna sonora, martellante e schizofrenica, composta dai più disparati brani pop e rap contemporanei, creando una tale amalgama di impulsi e di contrappunti da superare addirittura lo splendido lavoro musicale già operato con la sua versione (per la verità non poi così riuscita) di Marie Antoinette.
Ma veniamo ora al sodo: un cast che è quanto di più spettacolare, spontaneo e soprattutto VERO ci possa essere. I ragazzi, a cominciare da Israel Broussard nei panni dello scapestrato Marc fagocitato dall’universo femminile fatto di furti e di griffe, offrono una straordinaria prova di recitazione, in realtà rappresentando se stessi e nulla di più, senza fronzoli o altro. Perciò non stupisce che anche le performance di una esordiente come Taissa Farmiga o di una veterana quale Erin Daniels (per intenderci, La casa dei 1000 corpi) appaiono genuine e del tutto in sintonia con l’universo luccicante ed estremo della pellicola. Ma la vera punta di diamante non può che essere la (ormai non più) baby star Emma Watson, che avendo ormai svestito completamente i panni di Hermione Granger della stantìa saga di Harry Potter, si preannuncia come una delle stelle nascenti più promettenti di Hollywood. Già molto apprezzata per la sua recente performance in Noi siamo infinito, la Watson esprime qui la sua piena maturità artistica (e perché no, anche ormonale!) in un ruolo volutamente eccessivo e fuori dalle righe rispetto ai suoi consueti standard, vestendo i panni di Nicki, giovane esuberante e civettuola che sogna a tutti i costi un futuro da leader e con una madre fissata su una strana educazione casalinga che unisce la new age con lo yoga e il culto dei vip.
Nicki è l’archetipo della ragazza-modella contemporanea, colei che, anche sconfitta o privata della dignità, non rinuncia ad apparire e a farsi conoscere, in preda ad un vero e proprio disturbo ossessivo compulsivo. Sofia Coppola sa bene quello che fa, conosce la materia che ha in mano e ha gli strumenti giusti per plasmarla. Abbandona la tecnica del piano sequenza e della dilatazione temporale in favore di una bulimia visiva che lascia davvero esterrefatti e ammaliati tanto è bella e dolce da sorbire. D’altronde, non a caso nel 2010, dopo aver portato a casa il Leone d’Oro a Venezia con lo struggente Somewhere, la regista aveva espresso l’intenzione di affrontare il tema della giovinezza, a lei tanto caro in quanto alter ego femminile di Peter Pan, in una maniera nuova, lontana dai cliché e dalle normali rappresentazioni. Ebbene, The Bling Ring dimostra una sola cosa: c’è riuscita appieno!