The Bourne Legacy è il classico film che si suppone buono, ma che può essere minacciato, come di fatto è avvenuto, da una pessima promozione.
Mi riferisco (ovviamente) al trailer italiano che, non resistendo alla sciocca tentazione, mette in evidenza un “piccolo dettaglio” che, per i cultori della serie (come me), risulta davvero difficile da digerire: si sbandiera la mutazione genetica.
E quindi si comincia a tremare, perché chi ha visto le avventure di Jason Bourne/Matt Damon s’è affezionato all’idea che, nonostante alcune scene fossero difficili da accettare, per il fatto che fosse un uomo a compierle, Bourne fosse, per l’appunto, un uomo normale. Nessun trucco, quindi, ma solo addestramento.
Tirarci dentro la mutazione genetica è antipatico. È come portare via a forza gli spettatori dallo spionaggio e ficcarli in una storiaccia sci-fi. Insomma, ci siamo capiti.
La forza della serie di Bourne è la verosimiglianza e la qualità indubbia con cui le scene d’azione sono state girate.
Se ignorate il trailer, e allontanate per un attimo i fantasmi della mutazione, scoprirete di avere tra le mani un buon quarto capitolo.
Resta da chiedersi se non si mettano d’impegno, i soliti noti, a rovinare le cose già in partenza. E a rincarare la dose col doppiaggio.
Perché sì, la voce data a Cross trasforma Jeremy Renner in un ragazzino. Si sente, non c’è niente da fare, che quella voce italiana è più giovane del corpo che la ospita. Una specie di possessione.
Ma lasciamo stare, torniamo al film.
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[qualche piccolo spoiler]
Sull’intreccio non ho molto da dire. Accennare qualcosa significherebbe rovinare la sorpresa, per cui mi limiterò a elencare alcuni punti, secondo me salienti.
Per cominciare, la questione “mutazione”.
Mettendo da parte tutti gli incubi che la parola fa sorgere, incubi di cyberpunk da quattro soldi, l’idea che gli agenti segreti vengano in qualche modo potenziati per aumentarne il rendimento è resa in modo sottile, sensato, e soprattutto senza esagerazione. In sostanza, si parte dall’idea che vengano condotti test genetici sui candidati, prima tramite l’assunzione di farmaci, poi tramite inoculamento virale, atti a modificare due cromosomi. Non si tratta di modifiche abnormi, ma quel tanto che basta per ottimizzare la resistenza fisica e la lucidità mentale. E questo è quanto. Niente superuomini, niente superforza, sebbene alcuni dei balzi compiuti da Aaron Cross (Renner) siano al di là dell’umano.
In realtà, l’introduzione di questa componente sci-fi la ritengo non necessaria. Esattamente come non è stata necessaria nella trilogia interpretata da Matt Damon. Anche lì c’erano acrobazie, ma ci si illudeva che fossero frutto di severa disciplina.
L’aver voluto tracciare un solco, e quindi separare gli agenti dai normali esseri umani è qualcosa che, forse, dal punto di vista narrativo, prima o poi si dovrà scontare. Staremo a vedere.
Ciò non toglie, quindi, che la storia del virus sia, in ogni caso, gestibile. La novità è ben introdotta e non danneggia, in generale, la storia (anzi, ne diviene parte integrante e utile), né la sospensione dell’incredulità.
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La trama s’intreccia, come da tradizione, col capitolo immediatamente precedente, The Bourne Ultimatum (2007). Parte del cast storico figura in altrettanti camei, compreso Damon, solo in foto segnaletica.
Il cast è ottimo, Jeremy Renner è un buon succedaneo, già in parte. Stessa cosa per la co-protagonista Rachel Weisz. E per Edward Norton, il burattinaio.
Scene d’azione sostanziose e ben dirette, con particolare predilezione per quella che si svolge nella villa della Dottoressa Shearing (Weisz).
Inseguimento in mezzo al traffico cittadino, quello di Manila, per la precisione, nel quarto d’ora finale: resa eccellente.
E proprio la sequenza ambientata a Manila, nelle Filippine, alla fine desta qualche perplessità: tra inseguimento sui tetti e successivo in moto, rammenta troppo da vicino proprio The Bourne Ultimatum. Situazione simile, stesso numero di personaggi coinvolti, lui, lei, l’altro, polizia dovunque, e un quartiere ad altissima densità di popolazione e con case attaccate l’una all’altra, in modo da perseguire spettacolari acrobazie. Si tratta in ogni caso di un peccato veniale.
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La cosa che davvero manca, secondo me, è una colonna sonora adeguata. La precedente trilogia è stata accompagnata anche da score magnifici, tuttora saccheggiati in documentari e quant’altro. La musica che scorreva sugli inseguimenti ne esaltava il lato action, creava attesa, e la ricordiamo tutti. Ricordiamo, allo stesso modo, anche quella più serena, con sfumature orientali, nei rari momenti in cui Bourne riusciva a rilassarsi, pur afflitto dai mal di testa, e quella di chiusura (di Moby).
In Bourne Legacy la colonna sonora latita. C’è, ma è anonima. Peccato.
Ciò nonostante, resta un film da vedere, per i patiti del genere. Spero, anzi, che dia il via a una nuova serie.
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