[c'è qualche spoiler]
Abbott (Brian Cox), che poi risulterà l’eminenza grigia dietro a innumerevoli omicidi, lo sussurra a Bourne, mentre quest’ultimo gli punta la pistola alla testa:
“Non ci si può sottrarre al passato. In un modo o nell’altro, ti trova sempre”
E glielo dice nella suite del Westin Grand Hotel a Berlino, la suite di Goethe, di Faust, dal momento che anche Abbott è venuto a patti col diavolo.
A pensarci, la storia di questo secondo capitolo di Bourne è cruda. Muore una donna e un uomo la fa pagare ai suoi assassini.
Il migliore capitolo dei tre dedicati a Jason Bourne, Supremacy è anche, per quel che mi riguarda, capolavoro dell’action e dello spionaggio. Difficile riproporre tale velocità di esecuzione, tale unità e completezza, trovando spazio, stavolta, a differenza del primo capitolo, non solo per la memoria ritrovata, ma anche e soprattutto per la ricerca d’assoluzione verso quel passato da cui ha avuto origine tutto.
Bourne (Matt Damon) qui veste di nero e non ride mai, per l’intera durata del film, eccetto in fotografia, quella vecchia foto con Marie, l’unica che non ha bruciato, cancellando ancora una volta la sua vita nel giro di poche ore. Perfetto strumento di una vendetta implacabile.
Ritmo da documentario, dice Greengrass, alla regia di questo film. Cineprese a mano, che tuttavia non sbarellano, garantendo chiarezza d’immagini e di contenuti, persino nelle scene di lotta.
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Ma soprattutto, Greengrass rinuncia alla CGI. In Supremacy non ce n’è traccia, neppure durante la scena dell’esplosione, in cui tre sicari intervenuti sul posto per freddare Bourne, ne vengono travolti. S’è trattato di usare cavi e cuscini per farli atterrare.
Tutte le scene d’azione sono autentiche, e hanno previsto l’impiego degli stuntmen.
Film artigianale, vecchia scuola, reso cupo dai colori desaturati dai filtri.
L’idea era essere nel film, nella storia, prima del 3D, riuscire a gettare lo spettatore, oltre i protagonisti, all’interno della situazione. Me lo ricordo perché, come sempre, vidi gli speciali a esso dedicati. Due scene in particolari, la seconda ripetuta due volte, a rappresentare questo particolare vezzo registico:
- l’auto con a bordo Jason e Marie che precipita dal ponte nel fiume, con la regia che ci tiene nell’abitacolo fino all’impatto dell’acqua sul parabrezza e che allaga il veicolo, coi due travolti.
- Il taxi rubato da Bourne a Mosca che, superato un incrocio, viene investito da un’auto sulla fiancata del pilota. Vediamo il veicolo impattare contro la portiera e Matt Damon sobbalzare all’interno. Realismo eccellente, se non fosse poi in parte vanificato da piccoli errori di montaggio seguenti alla medesima scena, che mostrano la medesima fiancata intatta, a scontro già avvenuto.
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Si parte in media res, un giorno qualunque, situazioni qualunque, per poi proseguire diretti, fino alla fine.
Bourne personaggio si distacca definitivamente dal modello di spia alla James Bond, al quale ancora ci si richiamava, per divenire assassino specializzato, non più in fuga, ma in caccia dei suoi nemici. Bourne non usa gadget costosi ma oggetti di uso comune, reperibili in qualunque negozio specializzato, a cominciare dall’apparecchiatura per clonare le simcard telefoniche.
La scelta di privare il protagonista della controparte femminile, oltre a liberare l’intreccio dalle ingenuità narrative del primo episodio, derivanti dall’inesperienza del personaggio Marie e dalla necessità di Bourne di scendere a patti con questa e con la passione per lei, permette di concentrarsi esclusivamente sull’azione e sul passato dell’agente segreto. Il risultato, come sempre, alternato a scene di calma apparente, ma tensive, è eccellente.
Frenetico, Supremacy, non fosse perché la durata media di ogni singola inquadratura è di 1.9 secondi. Farebbe venire il mal di mare, se non che John Powell ci delizia ancora una volta con score perfetti, ad accompagnare l’urgenza o la calma apparente di ogni situazione.
Matt Damon abbandona la figura di ragazzino troppo cresciuto per incarnare, in via definitiva, forse il suo personaggio più importante.
Interessante notare che Supremacy è stato girato come capitolo finale, non essendo previsto alcun seguito. Ogni energia, quindi, è stata spesa per fornire un congedo adeguato.
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Le mie scene predilette sono tre. Due inseguimenti e il pre-finale.
Primo inseguimento a piedi, con Bourne braccato dalla polizia di Berlino, si passa dai tetti dell’albergo alle strade, alla metropolitana, a un ponte e poi al traghetto che passa sotto di esso, con salti acrobatici e tutta la fottuta ansia dei battitori che accerchiano la preda che non si arrende, con voci urlanti in sottofondo.
Seconda, e non può essere altrimenti, l’inseguimento in auto per le vie di Mosca, con veicoli distrutti e altrettanti guidati ai limiti dell’umano. Realistico o no, non importa. È proprio quel preteso realismo che vuole queste scene possibili solo ed esclusivamente grazie all’addestramento intensivo a cui gli agenti sono stati sottoposti che mi farà sempre preferire Supremacy, rispetto alle evoluzioni genetiche del nuovo capitolo, Legacy.
Ci si vuol credere, che uomini possano davvero fare queste cose, che siano letali persino con un giornale arrotolato, o con le mani legate. Ancora una volta, le sequenze di scontro fisico sono accompagnate allo sfoggio di un’antica arte marziale filippina, il Kali, sfumate col Jeet Kune Do.
Leggo critiche relative all’espressione dell’attrice che, alla confessione di Bourne, che fa luce su quel crimine, pienge e sorride insieme, in un binomio di emozioni impazzite, accompagnate dalla paura di avere un estraneo in casa. Critiche ingiuste, proprio quel sorriso accennato di Irena, rende giustizia a tutta la trama e pone Supremacy al di sopra delle consuete spy story, e lo rende qualcosa di unico.
A proposito, proprio la scena della confessione doveva rappresentare il finale originale, così com’era stato scritto e concepito, salvo poi decidere di aggiugere l’ennesimo confronto Bourne-Landy (l’agente della CIA che gli dà la caccia lungo tutto il film). Ci sta, anche se in questo modo s’è sacrificata almeno metà dell’epica tragica.
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