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L'occasione è ghiotta, la storia di un maggiordomo nero, Cecil Gaines (Forest Whitaker) alla Casa Bianca. L'uomo, giunto attraverso varie avventure dai feroci campi di cotone del sud, è ora una persona matura: è sposato con Gloria (Oprah Winfrey) e ha due figli: Charlie (Elijah Kelley) e Louis (David Oyelowo). Quest'ultimo, il maggiore, percorre, in parallelo alla vita del padre alla Casa Bianca, una strada di rivolta sociale contro le leggi razziali e i pregiudizi sulle persone di colore (niggers), fino ad arruolarsi nei Freedom Riders, le "truppe" di Martin Luther King (Nelsan Ellis). Mentre l'uomo fatto segue da vicino, in regime di totale incomunicabilità con i suoi datori di lavoro, le traversie del potere, il giovane cerca di contrastarlo per strada, con la forza, con il suo stesso corpo. L'uno serve, l'altro si oppone; questo si sbriglia dai legami salvo rimanervi invischiato in vari fermi, quello accede ai corridoi segreti, alle quinte stesse, della supremazia dei bianchi sui neri.
In questo regime di opposizioni, il lungometraggio di Lee Daniels procede con una prevedibilità a volte disarmante, anche nella pur bella fotografia. Sembra che si sia scelto una determianata tavolozza cromatica: i colori caldi per la vita privata di Cecil, mentre il forte contrasto bianco/nero per la sua vita professionale, che richiama l'antica permanenza nei campi di cotone. Ci sono, è vero, momenti nei quali questi piani si intersecano (mi riferisco in particolare alle incursioni nella militanza civile di Louis, alle riunioni di Martin Luther King e agli episodi conseguenti) e l'effetto è piacevole, ma appunto l'insieme non desta mai particolare stupore, tanto è schematica la scelta di fondo. Stesso dicasi per le inquadrature che, senza peccare eccessivamente, rimangono comunque un po' monotone
Un effetto non dissimile lo provocano le grandi star chiamate a interpretare le più importanti figure della storia: l'Eisenhower di Robin Williams, il Nixon di John Cusack o la Nancy Reagan di Jane Fonda (così come il James Holloway di Lenny Kravitz), solo per fare qualche nome, non aggiungono nulla rispetto - che so? - al JFK dell'ormai affermato James Marsden o al buffo Lyndon Johnson di Liev Schreiber: sono tutti ugualmente dei distrattori, piacevoli diversivi, nessuno dei personaggi in sé fa storia. Perfino la storia di Cecil e della sua famiglia a un certo punto perde senso: non perché la regia scelga altri set, bensì perché non si arriva a comprendere quale dimensione si voglia privilegiare, a quale "soggettiva" aggrapparsi. Non stupisce che si arrivi a Obama, è nell'ordine delle cose, un presidente dopo l'altro. Ma non stupisce anche perché proprio durante questa amministrazione abbiamo assistito a un pullulare di titoli che hanno tentato di raccontare nuovamente, da ogni punto di vista, la storia americana (tra i quali Lincoln di Steven Spielberg e J. Edgar di Clint Eastwood sono assimilabili a colossal e comunque hanno avuto un battage pubblicitario e un riscontro di pubblico un tempo inimmaginabili). Se c'è una cosa che colpisce, negli U.S.A., è proprio questa sua energia narrativa, un istinto forte - quasi prepotente - a raccontarsi nuovamente, a definire alcuni punti essenziali. Nel caso specifico, la battaglia per i diritti civili mi sembra che stia vedendo addensarsi una serie di spunti importanti (per altro riassunti in diverse sequenze di questo The Butler), che si affiancano all'egemonia dell'olocausto ebraico nella memoria collettiva. Mi sta benissimo, ma un film è un'altra cosa e non può mancare di quella scossa necessaria a farlo diventare qualcosa di più di The Butler di Lee Daniels.
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