Che kattsaw di filmone.
Ecco. Tutto qua. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di continuare. The Cabin in The Woods è un lunapark per lo spirito, di tutti, non solo dei nerd.
Da ragazzi, il sogno ricorrente è andare in uno chalet insieme al gruppo di amici. Soprattutto amiche. Magari c’è pure quella timida, che inforca gli occhiali e va bene a scuola, e c’è il figo del gruppo, che un po’ vi sta antipatico e che fa coppia con la più carina della scuola.
Insomma, mi sono sempre visto nel ruolo del nerd occhialuto, pur avendo il fisico del giocatore di football americano. Una natura duale, la mia, che difficilmente s’inserisce in un contesto di stereotipi della narrazione.
The Cabin in the Woods, d’altronde, è costruito sugli stereotipi nel tentativo riuscito di magnificarne la natura. Anche di più, l’idea è quella di mettere in scena la summa del b-movie horror, il manuale, quello che spiega gli abissi reconditi e i buchi logici delle sceneggiature, che spiega perché i protagonisti di questi filmacci che adoriamo si separano rendendosi vulnerabili ai nemici, anziché far fronte comune. Che mostra perché i due amanti se ne vanno in giro nel bosco, di notte.
Insomma, questo film dice quello che abbiamo sempre osato chiedere e che abbiamo liquidato con l’imperizia degli sceMeggiatori di turno.
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Drew Goddard alla regia, che ha un solo anno meno di me. E anche alla sceneggiatura, assistito da Joss Whedon. E io, per la seconda volta dopo The Inkeepers provo un profondo senso di ammirazione e di invidia per le doti che questi signori mostrano. Per l’inventiva, la fantasia sfrenata, per l’acuta realizzazione, per come sono riusciti a rimestare nel torbido e trarne fuori un film che nobilita il luogo comune, ma soprattutto diverte, in un crescendo parossistico, fino al finale epico, il più giusto, quello che avrei deciso di scegliere anche io, che un po’ in Marty mi ci rivedo, soprattutto nel tramutarsi come il vecchio Ash, da vittima impaurita in combattente furioso, per le sue teorie sulla necessaria disgregazione sociale, onde trovare un nuovo equilibrio, perché è bello, a un certo punto, combattere per le proprie idee, che siano solo proprie. Ed egoistiche.
Insomma, sono un tipetto pericoloso. E questo film mi celebra un pochino. Per cui, sì, impossibile non amarlo, The Cabin in the Woods. A partire dai richiami a La Casa, quel fottuto chalet con portico e due finestre sul bosco, la testa del cervo che non è un cervo, ma un lupo, e un tunnel (o ponte, non sottilizziamo) che dev’essere fatto esplodere, per intrappolare all’interno gli attori di un reality show da cui dipende il destino del mondo.
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La peculiarità è un’altra, è il coraggio di partire dallo stereotipo più odioso, anche se è il sogno di tutti, quello degli studentelli fuori per il weekend. Quanto tempo si resiste a un film che inizia così? Venti, dieci minuti?
E poi, il solito benzinaio sporco e cattivo che fa, indovinate un po’, il palo per gli orrori che si nascondono in quella casa in collina. Tutto studiato, sperimentato e inscenato decine e decine di volte. Ma Whedon è uno che con gli stereotipi ci gioca. A quel punto si comincia già a ridere, quando il benzinaio un po’ profeta viene sbeffeggiato proprio quando recita le sue frasi a effetto, lancia maledizioni.
La casa è quella casa, piena di roba strana, di oggetti inquietanti che rappresentano la scelta. Perché, è vero, in ogni sceneggiatura che si rispetti le cose vanno in una certa maniera perché è stato stabilito che vadano così, il trucco è dare l’illusione del libero arbitrio.
Allora, film a doppio binario, survival horror che più classico non si può, benché manipolato, e bunker fantascientifico sotterraneo, sede dei manipolatori, che ancora prelude a qualcosa di molto più grande e definitivo. Un gioco a incastri, un rebus, come se noi spettatori, risolvendolo, dovessimo essere puniti dal pinhead di turno.
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Lo so, mi sto mantenendo sul vago, ma è solo perché non voglio anticipare nulla a chi ancora non l’ha visto. Aggiungo soltanto che non è riflessione su certo cinema di genere. Non solo, almeno. La verità, come al solito ci passa davanti. Dobbiamo solo essere in grado di vederla. Ed è sempre Marty, la chiave, dall’inizio, quando argomenta sulla società deteriore, ipercontrollata, e agogna di passare un weekend in un posto isolato, dove non possa essere spiato, per finire proprio nel luogo più spiato e sorvegliato della terra. La società moderna ci rende attori inconsapevoli, ci fornisce emozioni pre-confezionate, purché controllabili, fino a quando qualcuno, più di qualcuno, magari, non decide di ribellarsi e scatenare l’apocalisse, che ok, qui è rappresentata da entità abominevoli insoddisfatte dei loro piccoli sudditi, ma che è senza alcun dubbio il crollo dell’ordine costituito.
Difficile credere che temi siffatti partano tutti da una semplice casa nel bosco. Ma è al tempo stesso incoscienza e temerarietà, quella che ha spinto a questa operazione.
Oltre che la presa d’atto che il mondo, la società umana funziona a cicli, riproponendo incessantemente le stesse storie, le stesse vicende, perché ubbidisce evidentemente a un disegno superiore che stenta a comprendere. E che talvolta è bello rifiutare. Altro sogno comune a moltissimi: distruggere con la fantasia ciò che di noioso ci incatena. Che la fantasia e le sue spaventose creature irrompano nel mondo, travolgendo gli sciocchi.
Questo, volendo attribuire a The Cabin in the Woods un significato ulteriore. Ma da solo, guardando alle incredibili sequenze che ci vengono mostrate, le scene di massacro indimenticabili, lo spettacolo messo in scena per il puro divertimento, che evada dalla battuta automatica, dai rutti e dalle scoregge, che è divertimento ragionato che sfida e provoca, anche preso così, dicevo, è spettacolo sommo.
E poi, quei due, sul finale, seduti sui gradini e sporchi di sangue… mi ricordano qualcuno.
Insomma, non perdetelo.
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