Il grande critico cinematografico francese André Gaudreault è solito suddividere il cinema delle origini in tre differenti periodi, ognuno di essi considerato diretta evoluzione del precedente e dotato di una propria specificità. Il primo, denominato della "captazione-restituzione" (1895-1902), si colloca a ridosso del così detto pre-cinema ed è caratterizzato da un'ancóra immatura grammatica visiva e da un totale asservimento della macchina da presa alla registrazione fedele della realtà, con una conseguente corrispondenza concettuale e temporale fra inquadratura e scena; il secondo, definito della "mostrazione" (1903-1913), rappresenta non solo la forma primordiale del moderno concetto di sfruttamento commerciale del film () ma è caratterizzato anche da numerosi esperimenti riguardanti una maggiore articolazione del linguaggio visivo; il terzo, chiamato della "istituzionalizzazione", si afferma a partire dalla metà degli anni Dieci del XX secolo e viene considerato come la maturazione definitiva del concetto di discorso filmico, grazie all'avvento dei principi strutturali dell'industria cinematografica ( studio-system e continuity-system) e della definitiva consacrazione di una grammatica nei suoi principi di inquadratura, scena e sequenza, oltre che alle differenti tipologie di montaggio (analitico, alternato e parallelo).
Ad oggi, la maggior parte dei testi dedicati alla storia del cinema tendono a far risalire il primato dell'istituzionalizzazione cinematografica a Nascita di una nazione (1915) di David Wark Griffith, una pellicola che, proprio alla metà del decennio indicato da Gaudreault, ebbe modo, secondo gli esperti, di coagulare le differenti innovazioni e sperimentazioni del linguaggio filmico degli anni precedenti all'interno di un'opera matura in tutti i suoi elementi, dalla messa in scena fastosa al montaggio complesso ed articolato (il famoso "montaggio alla Griffith" fatto di sequenze alternate che portavano al provvidenziale salvataggio all'ultimo minuto), sino alla recitazione e alla scelta dell'alternanza di differenti campi e piani di ripresa per esaltare meglio le emozioni e l'azione a seconda della necessità.
Secondo i più, infatti, fu proprio Griffith con questo suo film, e con i cortometraggi dell'era Biograph, a immettere una vera e propria anima nella macchina da presa, trovando il modo di usare i mezzi visivi del cinema non solo per coinvolgere lo spettatore, ma anche per guidarlo mano nella mano all'interno della finzione della storia. In realtà però non molti, eccetto forse i veri intenditori e appassionati di cinema delle origini, sanno che proprio nel 1915, alcuni mesi dopo l'uscita della mastodontica opera di Griffith, in alcune sale americane venne proiettato un film di appena cinquantanove minuti diretto da un brillante autore che solo l'anno prima aveva esordito come regista con una pellicola pseudo-western intitolata The Squaw Man (1914), un giovane che già nel 1913 aveva fondato assieme agli amici Samuel Goldwyn e Jesse L. Lasky una piccola casa di produzione chiamata Jessie L. Lasky Feature Play Company, primo nucleo di quella che da lì a breve sarebbe diventata nota semplicemente come Paramount Pictures.
Il regista in questione si chiamava Cecil B. DeMille e il suo film, intitolato The Cheat (in italiano I prevaricatori), un torbido dramma di ricatti e amori morbosi venato di tinte pre-noir dal sapore metropolitano, venne accolto con relativa freddezza dalla maggioranza del pubblico. Furono invece pochi e attenti critici a valutarne la grande qualità e a riconoscere in esso i segni di una vera e propria rivoluzione di tipo stilistico e narrativo. La pellicola, difatti, si snoda all'interno di una trama relativamente semplice ma di grande impatto emotivo e visivo: una signora altolocata di nome Edith Hardy ( Fannie Ward) dopo aver perduto in una speculazione finanziaria avventata una consistente somma di denaro destinata alla Croce Rossa, presa dalla necessità impellente di salvare la propria reputazione, decide di rivolgersi ad un suo ricchissimo ammiratore, il commerciante d'avorio giapponese, Hishituru Tori ( Sessue Hayakawa), il quale chiede in cambio alla donna di diventare la sua amante. La donna accetta l'indecente proposta, ben sapendo che la notte successiva dovrà pagare il suo debito. La fortuna sembra correre in suo aiuto visto che gli investimenti fatti dall'ignaro marito Richard Hardy ( Jack Dean) sono nel frattempo andati a buon fine. Edith ha ora la somma da restituire al viscido giapponese, ma questi rifiuta il denaro pretendendo il rispetto dell'accordo. Siamo nelle stanze di Hishituru e la situazione precipita: lei minaccia di suicidarsi, lui le mostra una pistola invitandola a rivolgere l'arma contro se stessa, lei si ribella cercando di aggredirlo, lui accecato dalla rabbia compie un gesto crudele e simbolico allo stesso tempo e la marchia a fuoco (il marchio è lo stesso che il mercante utilizza per le sue statuette d'avorio), lei finisce a terra quasi inebetita per il dolore. La pistola è lì a portata di mano. Parte un colpo e l'uomo viene ferito gravemente. Edith scappa ma nel frattempo arriva il marito che si assume la responsabilità del ferimento di Hishituru il quale non smentisce questa versione dei fatti. Si arriva al processo e per Richard la condanna è praticamente certa. Non manca però il colpo di scena finale: Edith straziata dal dolore grida a tutti i presenti la verità e, mostrando il marchio che porta sulla spalla, riesce a capovolgere il verdetto a suo favore. Il marito è libero e i due possono ora ritrovare la felicità e ripercorrere insieme la via di casa.
Come è possibile notare fin da subito, il film si avvale di una sceneggiatura ricca di tematiche e soluzioni narrative molto in voga nel romanzo sentimentale e nella letteratura poliziesca del primo decennio del '900, grazie ad una serie di richiami ai principi dell'apparenza sociale sotto la quale si cela il marcio dell'essere umano, la necessità di venire a patti col male (chiaro richiamo faustiano), il ricatto carnale come compenso al male per il male e soprattutto l'immancabile sequenza processuale che, collocata strategicamente alla fine del racconto, fa presagire il peggio ma si risolve con una provvidenziale estinzione della colpa che fa contenti un po' tutti. Ebbene, anche per merito dell'abile drammatizzazione di Hector Turnbull e Jeanie Macpherson, il giovane ma già esperto DeMille, grande amante delle immagini in movimento che decise di votarsi alla causa del cinematografo dopo aver visto The Great Train Robbery (1903) di Edwin S. Porter e dopo aver fondato nel 1904 una casa di produzione col proprio nome, riesce a scavalcare abilmente le convenzioni e la rigidità dello stile visivo fino ad allora presente in drammi del genere e dona alla sua pellicola una freschezza ed una originalità a dir poco sorprendente, soprattutto impiegando una serie di accorgimenti e trovate formali che, da un punto di vista squisitamente tecnico, furono una vera manna per gli specialisti che, in quel periodo, si barcamenavano ancora nel tentativo di dare un'organicità ed una specificità a quella che, nel decennio successivo, sarebbe stata definita da Ricciotto Canudo come la settima arte.