È evidente come The Congress abbia alla base un’idea assolutamente geniale, di quelle che avrebbero evitato a grandi registi del passato quei grattacapi generati, ad esempio, dalla bella ma intrattabile Marilyn Monroe. Un elisir di lunga vita on screen per un Dorian Gray 2.0 che potrebbe diventare realtà in un futuro non troppo lontano della settima arte.
Interrogandoci sui temi della scelta e della libertà, il film di Ari Folman affascina e incuriosisce, ma purtroppo tende a stroncarsi in due nel passaggio alla “fase” cartoon. La possibilità di comprendere quanto “introdotto” nella prima parte si fa in secondo piano, come se Folman, in preda ad un’imbizzarrita trance artistica atta a regalarci una componente visiva strepitosa, avesse dimenticato il contenuto dietro la forma. La fluidità dei “disegni” e il mondo parallelo ad essi connesso è un carnevale per gli occhi, ma l’idea del composto chimico che, assunto da chiunque, fa essere chi si desidera (Clint Eastwood come Michael Jackson, Marilyn come Frida Kahlo), ci rimane oscura sino al finale ritorno in un mondo reale oramai invecchiato e un po’ ribelle.
A ben vedere, quindi, la vera libertà sembra essersela presa Folman nel plasmare una parte in cartoon che, in controluce, ha il vago retrogusto autoreferenziale dell’esercizio di stile. Come intimorito dalla scelta di approfondire la complessità dello scenario prospettato, Folman sembra fermarsi all’estetica, dimenticando l’etica. Sospeso tra la morte del cinema e una fantascienza distopica, The Congress fa quindi storcere un po’ il naso, pur salvandosi in corner per l’originalità del soggetto e la folle psiche visionaria del suo autore.
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