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L'ultimo film di Robert Redford comincia da qui, ma non per raccontarci la biografia di Lincoln, come si potrebbe supporre, bensì per far luce su una vicenda 'oscura' e quasi dimenticata dai libri di storia: quella di Mary Surratt, vale a dire la proprietaria della pensione dove Booth e gli altri 'cospiratori' si riunivano per definire i loro piani terroristici. La donna viene arrestata e incarcerata per favoreggiamento, oltre ad essere esposta al pubblico ludibrio in quanto responsabile di aver coperto i fautori dell'attentato. Perfino il difensore d'ufficio, il giovane avvocato Frederick Aiken, è totalmente convinto della sua colpevolezza, tanto da considerare come un'offesa verso la sua persona e la sua carriera il dover prendere le difese di chi si è macchiato di un simile reato.
Succede, però, che interrogando la donna Aiken si convince via via sempre di più che l'imputata era davvero inconsapevole e incolpevole di quello che accadeva dentro il suo albergo, e che il responsabile vero e principale collaboratore di Booth è in realtà il figlio di lei, che adesso è latitante e si nasconde chissaddove. Ogni tentativo di scagionare la sua assistita si rivela però vano: lo Stato, nella persona del Ministro della Giustizia Edwin Stanton, in realtà ha già scritto la sentenza (ovviamente di colpevolezza), e usa la Surratt come 'ostaggio' per far costituire il figlio. E per far condannare la donna non esita a far promulgare una serie di leggi totalmente antidemocratiche e illiberali al fine di giungere allo scopo.
Robert Redford, coerente con le sue ormai celeberrime idee 'liberal-democratiche', mette in scena un film dallo stampo splendidamente 'classico', stile cinema d'inchiesta anni '70, forse un po' ingenuo e stereotipato in certe situazioni, ma onesto e 'sanguigno' nella fattura. Ed è fin troppo evidente leggere in questa pellicola una chiara e netta presa di posizione verso il sistema giudiziario americano, paragonandolo a quello attuale. Gli interrogativi che pone Redford sono noti: è giusto, in nome della sicurezza nazionale, sacrificare in parte i propri diritti e la propria libertà? E' giusto che per scongiurare una ribellione la giustizia venga piegata alla 'ragion di stato'? E' normale che chi detiene il Potere si faccia leggi a proprio uso e consumo, senza che nessuno eserciti alcun controllo?
'In guerra, le leggi si fermano' afferma Stanton nella battuta più celebre del film. Già, ma può un attentato essere considerato 'guerra'? E chi lo stabilisce? Ovviamente sempre i potenti, i vincitori, che fanno e disfanno le leggi a proprio piacimento. E ogni riferimento all'attentato delle Torri Gemelle non è certamente casuale, specie a pochi mesi dal decennale della più sanguinosa tragedia americana della storia. Redford vuole metterci in guardia e farci notare, amaramente, che a quasi 150 anni dall'uccisione di Lincoln le cose non sono affatto cambiate, e che in nome della lotta al terrorismo gli Stati uniti, oggi come allora, non esitano a rinnegare la Carta Costituzionale, e di conseguenza la democrazia.
Il film, come detto, è bello e coinvolgente. Un legal-movie di respiro antico, interpretato da attori stupendi: da Robin Wright, mai così brava, a James McAvoy, Tom Wilkinson, Evan Rachel Wood, e un soprendente Kevin Kline, davvero a suo agio nei panni, per lui insoliti, di 'cattivo'. Bello anche il finale, che non sveliamo, ma dove una didascalia ci avverte che l'avvocato Aiken, dopo la conclusione del caso-Surratt, abbandonerà la toga per diventare giornalista: esattamente il primo cronista del neonato 'Washington Post'... come dire, gli 'Uomini del Presidente' sono avvertiti.
VOTO: * * * *
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