Nel pieno del sempre più emblematico dibattito sui diritti LGBT, approda anche in Italia il quinto film per il cinema di Tom Hooper (Premio Oscar per “Il discorso del re” nel 2011), vietato ai minori di 6 anni in Germania, di 21 a Singapore e bandito senza mezzi termini in sei paesi della penisola arabica.
“The Danish Girl” si configura come uno spaccato degli ambienti culturali che negli anni ’20 animavano la colta mondanità di Copenaghen e Parigi, ove crebbero la fama, la crisi matrimoniale e la irreversibile crociata alla ricerca dell’identità primigenia dei coniugi Wegener.
Entrambi giovani talentuosi pittori (ad essere pedanti anche troppo verdi nella presente produzione), Einar fin dall’infanzia celò dentro di sé un’attrazione viscerale per la femminilità che, confluita in un patito processo di interiorizzazione invece che di estrinsecazione, favorita dalla fortuna acquisita dalla maschera di Lili, ironico soggetto prediletto della moglie Gerda, ha portato alla totale e drammatica emersione della “vera” natura di lui, al superamento di un bipolarismo che per lungo tempo lo imprigionò in una spasmodica ricognizione del proprio essere nato femmina nel corpo sbagliato, alla forzata affermazione della propria sessualità “preclusa”, recuperata attraverso una serie di operazioni chirurgiche al crepuscolo di un’esistenza ormai consunta.
Il biopic ruota attorno alla solida cellula Eddie Redmayne-Alicia Vikander, lui autentico efebo, radioso e disarmante nella sua candida espressività, lei Venere sensibile e caparbia, flebile come un “pulcino bagnato” e ricolma di bianca speranza, sommo emblema, più dell’(altro) protagonista, della sofferenza inaudita comportata dalla dissoluzione di un marito amato che agli atti vale tutti i sacrifici del mondo.
Non può sfuggire la grandezza di una donna simile, spalla fino alla fine di un essere “fatto donna” da Dio, corretto nella sua fisicità innaturale dall’unico simile dotato di una coscienza tanto disinibita.
Il lungometraggio in sé possiede un corredo narrativo di palese consistenza,ma nell’intento di voler sciogliere tutti i nodi del discorso finisce per presentarsi come un accumulo di episodi troppo sbozzati, incapaci di convivere un sano rapporto d’insieme.
La responsabilità è da attribuire principalmente alla sceneggiatura, più adatta ad una messinscena televisiva che cinematografica, capace di accendere una vera e propria eccitazione nel corso delle avventure esordiali, per poi soffocare gli spunti del soggetto in uno sviluppo che sa di eccessiva iterazione nel suo pesante incedere.
Nonostante quest’ingombrante vizio di forma, il prodotto regge anche grazie ad una regia attenta, accondiscendente con i primattori, disponibile verso la realizzazione di sequenze di grande eleganza (si pensi a quando Einar osserva il suo nudo riflesso nel silenzio della scuola di danza o si dà al voyeurismo per apprendere l’arte della grazia femminea) e di ricorrenti rimandi formali che tessono pertinenti legami tra l’arte sorpassata di Lili e il quieto elemento acqueo della natura circostante, fotografato con costante delicatezza.
Si avvalgono dello stesso talento le raffinatezze della scenografia e dei costumi, che assieme al meritevole duetto afferrano a buon diritto la nomination agli Oscar.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni