Più che gettarsi nella vera biografia di Einar Wegener - pittore paesaggista affermato della Danimarca degli anni '20, con inclinazioni femminili che lo portarono a diventare il primo transgender riconosciuto - "The Danish Girl" prova a raccontare una storia d'amore romantica. Lo fa, ovviamente, in una veste atipica del genere, consapevole di non poter andare a consolidare quel sentimento viscerale per via di una libertà di vivere e di voler essere che va di pari passo alla separazione, al termine, quindi, di un matrimonio preesistente che tuttavia non rompe quei legami d'affetto profondi e sinceri della coppia in questione.
E' questa dinamica infatti il cuore su cui il regista Tom Hooper intende cucire elegantemente la sua pellicola, motorizzata per emettere battito da un Alicia Vikander intensa e strepitosa, sostenuta senz'altro da un personaggio oltremodo generoso e innamorato, ma anche da quella che, probabilmente, ad oggi, è la sua migliore interpretazione in assoluto. Sono per lei e per il suo viso fanciullesco gli occhi, dunque, per quella reazione comprensiva e paziente con cui asseconda un marito confuso e sconvolto dal ritorno di quell'entità femminile con cui in passato aveva già cominciato a fare i conti, entità di cui lei però non era mai stata al corrente, risvegliata repentinamente da un gioco di travestimento innocuo - tra l'altro di sua invenzione - con cui ingannare gli invitati indiscreti dell'ennesima e noiosa cena di gala. La sua reazione preoccupata, eppure contemporaneamente umana, permette a "The Danish Girl" di non sopperire sotto le faccette e la metamorfosi non irresistibile di un Eddie Redmayne a tratti sopra le righe, a suo agio negli atteggiamenti e nelle movenze delicatamente femminili, ma assai meno quando è il turno di trasmettere e suscitare emozioni. Non è un caso, del resto, che i pochi brividi e i pochi lampi di commozione arrivino quando il suo Einar/Lili sia fuorigioco, quando a dominare la scena o a prenderla per mano, insomma, c'è la sua controparte, nonché moglie, Gerda.
Cerca di restare più in equilibrio possibile comunque, Hooper, asciugando quanto può i suoi manierismi e imbastendo, con qualche licenza poetica, una storia in cui l'argomento delicato, posto all'interno, non assume mai quel ruolo da primo piano che, forse, era lecito aspettarsi. Accenna al disagio di Einar come a un errore della natura, una malformazione interna che curare chirurgicamente è del tutto normale, distante anni luce quindi da quel discorso di aberrazione dell'essere umano sostenuto da alcuni medici dell'epoca, mentalmente vicini ancora a frammenti di personalità incastonati nella cultura moderna. Unico spaccato, questo, in cui "The Danish Girl" va a prendersi una pausa dal romanticismo stretto, quello con cui riesce a convincere lo spettatore a seguirlo e ad invidiare un rapporto che mai, neppure a operazione conclusa, smette di essere autentico e d'amore: sebbene il merito sia palesemente più del carattere forte e devoto di Gerda e meno di quello un po' egoista e introverso di Einar.
Con l'attitudine a rimanere innocuo sotto tanti punti di vista, quindi, il film di Hooper schiva le trappole e, pur con una serie di difetti evidenti, mantiene la schiena dritta. Non da mai l'impressione di potersi permettere chissà quali movimenti bruschi, ma mettendo il peso dalla parte giusta, cioè da quella della Vikander, si salva da un possibile crack e accontenta trasversalmente un pubblico non pretenziosissimo.
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