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The Danish Girl – Recensione di Alba Gnazi

Creato il 25 febbraio 2016 da Wsf

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Sono gli occhi verdi, il primo colpo allo stomaco.
Le tinte predominano in varie combinazioni, sfumate o violente, con la pietà tipica del colore che si adegua allo sguardo: loro intere, concentrate; non come certi sguardi di noia o furia, o di malgarbo. Il malgarbo è intollerante indifferenza, la malmostosa certezza di una supposta superiorità. E’ l’interruzione senza rimedio di ogni possibilità di avvicinamento.

I timbri del blu creano partiture a sé stanti. Bisogna lasciarsi cullare dal blu, lasciarsi sorprendere, lasciarsi affrescare dalle sue dita come una parete che da troppo non muta.

Gerda scivola sottopelle.
E’ madre e amante, amica e nutrice: lei ama. Ama.

Gerda ha scelto da che parte stare: e difende la sua scelta anche da se stessa, anche quando lotta con ”quegli” occhi barbari e angelici per riappropriarsi del suo fiato – vivo in quello di Einar, l’uomo della sua vita: la donna della sua vita: Lili: polo magnetico che tutto riunisce, e che passa attraverso Gerda.
Terribile, confusa, tenerissima Lili: intatta anche lei, come un blu radicato dove il fiordo arretra in filo-oceano, ricca di due certezze: la sua palude, femminino plumbeo che la convoca da ogni quadro e Gerda, che per prima l’ha vista.

Il profumo francese è una pioggia che si assapora, che avvince. E I corpi esposti, protratti nelle penombre; i quadri ammiccanti, le bocche umide, le mani sinuose, gli occhi. Gli occhi.

Poi le città, micromondi che si perdono nella vastità di ”quel” rapporto, della partecipazione, dell’empatia circolare; di quell’amore estremo consumato fino in fondo e fino in fondo integro, quasi sovrannaturale e totalmente umano in atti e intenzioni.

(Altro non dirò, ché troppo ho detto. Al cinema eravamo quattro gatti: anche per questo ne è valsa la pena. E’ stato mio ogni attimo, senza intromissioni di sorta.)

di Alba Gnazi


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