The Danish Girl, un film di Tom Hooper. Con Eddie Redmayne, Alicia Vikander, Matthias Schoenaerts, Amber Heard, Ben Whishaw.Storia del primo uomo in Europa che desiderò farsi donna (accadde in Danimarca, negli anni Venti). Finemente scritto e girato, politicamente a postissimo. Solo un po’ troppo leccato e laccato, e accomodante: ogni possibile elemento davvero disturbante è stato piallato via. Eddie Redmayne-faccia d’angelo en travesti è perfetto, però il film se lo prende Alicia Vikander nella parte della moglie che tutto comprende. Per lei sarà Oscar? (nominata quale best supporting actress). Voto 6+
The Danish Girl è esattamente quello che ci si aspettava, solo un po’ meglio, con qua e là una qualche invenzione – di racconto, di regia – che lo fa un filo discostare dal mainstream. Il perfetto film transgender per la awards’ season, altroché. Figuriamoci, una storia che più politicamente corretta e a posto non si potrebbe, e che, pur essendo vera, sembra acconciata apposta da uno spin doctor per fare da manifesto ai diritti transgender e veicolo dell’oggi trionfante gender culture. Chi volete che resista alla faccenda e alla vicenda, peraltro finemente girata da Hooper e benissimo interpretata dalla coppia Eddie Redmayne-Alicia Vikander, nella quale un giovin piacente pittore danese di inizio Navecento di nome Gerard si sente dentro di sé donna e desidera farsi Lili? Una traiettoria esemplare da un genere all’altro, a suo tempo trascritta in forma di diario e poi tradotta in libro, che stabilisce già tutte le tappe che da quel momento in avanti migliaia e migliaia di transgender, in Europa e in tutto il mondo, seguirano fino a oggi. Un paradigma. Un modello di riferimento, una matrice che produrrà avventure e disavventure replicate in serie nei decenni successivi. Per questo, per la sua esemplarità, il film ci comunica un senso di molte volte già visto e narrato, solo che qui siamo di fronte (almeno per quanto riguarda la vera storia da cui The Danish Girl è tratto, quella di Einar/Lili Wagener) alla matrice originale. Anni Venti. Einar è un giovane uomo che dipinge con successo i suoi paesaggi di fiordi e lagune danesi, sempre lo stesso soggetto, ossessivamente. La moglie Gerda, pure lei artista anche se di zero successo, donna di gran talento e temperamento, gli chiede un giorno di indossare calze, scarpe e tutù della loro amica star della danza di cui sta facendo il ritratto per posare in sua assenza al posto suo (l’amica è la bellissima e pure brava Amber Heard, sì, la moglie di Johnny Depp). Mai mossa fu più fatale. Einar in abiti femminili (ri)scopre la parte oscura di sé che mai aveva voluto riconoscere davvero. Si veste sempre più spesso da donna con la complicità di Gerda, sembra un gioco a due, un gioco di coppia solo un po’ più azzardato del solito, diventerà invece l’emergere di una seconda identità, di una nuova presenza. Nasce Lili ed Einar man mano le dà sempre più spazio, fino a mettere a rischio, anzi a negare, la sua identità di maschio. Il tutto sullo sfondo della bohème e della borghesia di Copenaghene, e poi degli ambienti artistici parigini. Il focus della narrazione non sta nel rigetto, nell’ostracismo dell’ambiente sociale a Einar/Lili, ma nel complesso tragitto psichico e mentale di lui-lei e delle consguenze sul matrimonio con Gerda. La quale, acuta com’è, e amando Einar, finirà con l’assecondare, dopo l’iniziale sgomento, il desiderio di lui di farsi donna. Perché, tra una depressione e l’altra, tra una visita e l’altra da medici pazzi e sadici che torturano e cercano di internare il povero Einar per ricondurlo alla sua dimensione biologica e psichica di masculo, ecco spuntare un ginecologo-chirurgo di Dresda il quale pratica pionieristicamente la chirurgia del cambio di sesso oggi diventata prassi universale e passata aggratis in una qualsiasi Asl. Non aggiungo altro, sennò i paranoici dello spoiler poi si fanno sotto. Tutto è altamente prevedibile, come ha da essere un modello, un paradigma. In fondo, siamo all’agiografia, alla vita dei santi (e non manca il martirio, a rafforzare nelle masse devozione e ammirazione). La casuale scoperta del piacere del cross dressing, la percezione del corpo maschile come estraneo e gabbia che imprigiona il vero sé femminile, il bisogno di spezzarlo, quel corpo, per far erompere la donna segreta, l’intervento per omologare l’esteriorità corporea alla percezione di sé. Sì, è la solita storia che il cinema ci ha raccontato decine, forse centinaia di volte, e che ogni transgender ha raccontato o potrebbe raccontare. Però, devo ammettere, organizzata da Hooper e dagli autori dello script con indubbia finezza, anche se è inutile aspettarsi uno scarto vero, un altro punto di vista, una visione originale. Un film che fa proprie e rilancia le famose istanze della gender culture e dei movimenti connessi confezionandole molto bene a uso delle plate globali. Certo, per riuscirci si piallano via i lati più oscuri del sex change, certi molesti interrogativi che anche i politicamente correttissimi si fanno. Da un paio di battute del film si evince che Einar dalla trasformazione chirurgica forse (forse) pensa di diventare in toto una donna e di poter aver un giorno un figlio. Ovvio che no, ovvio che non è possibile. Togliersi il pene e fabbricarsi una vagina non vuol dire poter contare su utero e ovaie funzionanti, e questo ogni tanto, al cinema e anche fuori dal cinema, bisognerebbe pur ricordarlo quando si parla di donne dentro finalmente liberate della loro corazza corporea maschile. Il meglio di The Danish Film sta in certi pasaggi, come Einar che si guarda nudo allo specchio e si osserva, quasi aspettando che dal suo corpo erompa Lili, e si pensa a Spencer Tracy dottor Jekyll che vede mister Hyde man mano trasformarlo e prendere possesso di lui nel classico del 1941 di Victor Fleming. Il resto s’è visto in abbondanza in tanto cinema, dal meraviglioso A qualcuno piace caldo fino al recente, e non riuscito, Una nuova amica di François Ozon, come la prima goffa camminata del maschio travestito in tacchi alti. Eddie Redmayne con quella faccia angelicata è l’interprete perfetto, ovvio, anche se en travesti svetta in altezza su tutto il panorama femminile di Copenaghen e ci si chiede come mai nessuno lo sgami. E però il film se lo prende Alicia Vikander, giustamente nominata all’Oscar come best suporting actress (ma se la deve vedere con la Kate Winslet di Steve Jobs: mica facile). Lanciata tre anni fa alla Berlinale dal successo di A Royal Affair, nel 2015 è arrivata in vetta. Prima Ex Machina e Operazione UNCLE, adesso The Danish Girl. Ha energia, carattere, una svedese con la faccia assai espressiva e poco scandinava, anzi da terrunciella (ma dove son finite le attrici svedesi biondone e vichinghissime di una volta?). Ci scommettiamo sopra? Sprecato Matthias Schoenaerts quale mercante d’arte assai vicino alla complicata coppia.
Magazine Cinema
THE DANISH GIRL (recensione), il perfetto film transgender per le platee globali
Creato il 22 febbraio 2016 da LuigilocatelliI suoi ultimi articoli
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