Una risurrezione che è soprattutto conclusione. Una fine che potrebbe tornare ad essere principio. Il gioco degli opposti continua ad affascinare Nolan e a percorrere le innumerevoli intersezioni della sua opera infiltrandosi con prepotenza anche in questo terzo capitolo del “cavaliere oscuro”. La trottola di “Inception”, col suo moto ininterrotto sui titoli finali, in fondo parlava chiaro: il suo è un cinema che ama imprigionare lo spettatore dentro un flipper e che si diverte a scaraventarlo come una biglia attraverso un labirinto dove tutto è già stato prestabilito. E se è vero che il percorso resta identico, le traiettorie possono cambiare ad ogni nuova visione. Quello di Nolan è un cinema che può suscitare irritazione per la sua pretesa superiorità intellettuale o per il modo in cui subordina l’emozione al raziocinio, ma che non può non lasciare ammirati per l’abilità con cui elabora i suoi meccanismi narrativi (talvolta vere e proprie trappole) o per quello scarto continuo fra immagine (spesso ingannevole) e parola (cui confida molto di più data la raffinata complessità delle sceneggiature) che crea più di una vertigine nello spettatore. E se il discorso è reso con più evidenza nelle pellicole cosiddette “sperimentali” (“Memento”, “Inception”), ciò non significa che anche quando si cimenti con prodotti più dichiaratamente di genere – i comics appunto – Nolan voglia rinunciare del tutto alle sue messe in scena meccaniche e “stordenti”. Del resto occorre ricordare che ogni capitolo della saga del cavaliere mutuato dalle tavole di Frank Miller è stata intervallata da quei rebus escheriani noti come “The Prestige” e “Inception”, entrambi a loro modo “fondativi” di una determinata poetica dell’immagine e del modo di raccontarla. Non c’è capitolo di Batman dunque che sia esente da simili contaminazioni all’interno del proprio tessuto narrativo e che non si sia progressivamente “impregnato” di suggestioni provenienti dalle pellicole precedenti.
Il gusto per la narrazione “a passo di gambero” che reggeva la struttura di “Memento” ritorna sotto le spoglie del racconto di formazione di “Batman Begins” così come il gioco di specchi che animava “The Prestige” deve avere influito sicuramente sul dualismo costante riproposto in ogni situazione e personaggio de “Il cavaliere oscuro” a sua volta scandito dalle lancette “folli” di un Joker destabilizzatore. Infine “Il cavaliere oscuro – Il ritorno” che per la progressione inesorabile con cui svolge ed intreccia le differenti storie, tutte convergenti verso un’unica risoluzione, non può non richiamare alla memoria i vertiginosi “riavvolgimenti” finali di “Inception”. Puro Nolan dunque ma anche, e soprattutto, Batman. Perché il regista, pur ossequioso nei confronti della sua esperienza precedente, non perde mai di vista il suo obiettivo fondamentale che è quello di svolgere e concludere una saga perfetta mantenendone inalterate la spettacolarità e soprattutto la coerenza interna. Questo terzo capitolo non solo si incastra perfettamente coi precedenti sotto il profilo puramente cronologico, ma riesce anche a conferire compattezza all’intero disegno complessivo, rendendo più compiuto il percorso psicologico del suo protagonista (“cavaliere oscuro” più per necessità inconsce che per obblighi morali o civili) e assai più simbolica la sua parabola in quel di Gotham City, città-stato fin troppo vicina all’attuale presente. E a saga conclusa basta rievocare l’intera vicenda dei tre film per rendersi conto che nell’arco di sette anni non abbiamo fatto altro che partecipare all’ennesimo gioco a incastro del suo regista.
“Batman Begins” ovvero la genesi della maschera attraverso la perdita, il pellegrinaggio e infine il ritrovamento (di sé): un percorso che si svolge rigorosamente all’indietro (Memento docet) e che rende più vividi quei fantasmi del proprio io scisso fra rabbia, vendetta e sensi di colpa. Nolan, nei primi serrati 40 minuti, gioca con le architetture della storia trasformando quello che altri avrebbero reso solo il classico incipit del supereroe in un incalzante mix di action e psychological drama senza dimenticare un pizzico di filosofema new age. A seguire la narrazione cede il passo a un cinecomic dai ritmi solidi e coi colori insozzati di fango. Nel primo capitolo il male messo in scena dal regista non è altro che un’esasperazione del concetto di bene e la Setta delle Ombre, col suo letale disegno di purificazione globale, forse non appare meno marcia della stessa Gotham. Ma il simbolo, appena nato, è troppo forte per soccombere e finisce per trionfare insieme alla rinata città.
Batman atto secondo o, meglio, “Il cavaliere oscuro”. Il titolo evoca già i toni cupi e il taglio nichilistico del fumetto e cominciano a nascere le prime incrinature nel rapporto fra eroe e giustizia, messo in luce anche dalle complicazioni della politica e dall’esigenza di assicurare alla città un simbolo “necessario”. Il più teorico dei tre capitoli è anche quello che vuole interrogarsi sul concetto di disordine incarnato, letteralmente, dal più schizoide fra i nemici di Batman (il Joker in quel memorabile assolo del compianto Heath Ledger). Il male è fuori come dentro e può assumere le connotazioni irrazionali dell’imprevedibilità o quelle della predestinazione (Harvey Dent e il suo progressivo deterioramento morale). Interamente giocato sulle contrapposizioni (Batman-Joker, Due Facce-Dent, ordine-corruzione, egoismo-altruismo di Gotham) rappresenta forse il più “morale” fra i tre capitoli della saga. Il cavaliere oscuro del finale rappresenta l’antidoto necessario al caos diffuso dal Joker, quasi un gesto dovuto da Bruce Wayne alla “sua” Gotham che, messa a dura prova dal folle pagliaccio, dimostra dopotutto di avere ancora spina dorsale. Il simbolo si immola sull’altare della bugia ma solo per un bene superiore (la speranza). Nasce il mito.
Infine “Il ritorno” o l’addio definitivo (almeno per Nolan) nel capitolo dedicato alla resa finale di Gotham e al suo successivo e definitivo riscatto. Dominata da un’atmosfera incombente di fatalità, questa terza pellicola è anche l’unico epilogo possibile della saga, quello che sancisce definitivamente i destini di tutti e porta a conclusione l’intero discorso iniziato da Nolan sette anni fa. Il regista dimostra di non essere rimasto indenne dalle influenze di “Inception” e finisce per imprimere al film un’accelerata che lo rende cinematograficamente più fluido rispetto all’andamento quasi jazz imposto dalla presenza del Joker nel secondo capitolo. Le storie si intersecano fra loro senza però perdere mai in profondità e risultando anzi emotivamente funzionali all’intero scioglimento finale. In termini di storia, e quindi sul piano delle esigenze puramente fumettistiche, lo scontro messo in scena è, in apparenza, quello fra Batman-Wayne e il cattivissimo Bane, lucido vilain dotato di forza disumana quanto di convincente retorica politica (un granitico Tom Hardy svilito da una sciagurata scelta di doppiaggio tutta italiana). Ma solo apparentemente, si diceva, perché in realtà il vero conflitto è, ancora una volta, quello fra l’eroe ormai rifugiatosi all’ombra della sua maschera “civile” (Bruce Wayne, miliardario malato e impigrito) e quelle paure mai realmente dominate che qui riaffiorano un’ultima volta per completare definitivamente la sua iniziazione (begins) e preparare, naturalmente, all’impresa più difficile. Di più non si può dire.
Il dissidio del cavaliere oscuro e la sua rinascita (rises) viaggiano paralleli alle vicende di una Gotham City chiamata ad affrontare la sua disfatta peggiore, quella della caduta dell’ordine costituito per mano di un regime che mistifica il principio di libera determinazione illudendo i cittadini e che in realtà mira solo a realizzare, nell’ombra, un disegno assai più antico e terroristico. E se i conflitti dei vari personaggi, dal commissario Gordon all’agente Blake, dal combattuto Alfred all’opportunista Selina Kyle, rappresentano, insieme a quella del protagonista e al tema del riscatto “civile” di Gotham, il vero cuore “morale” della vicenda, non si può tacere delle suggestioni politiche di cui il film è palesemente intriso. E se ancora oggi la metafora politica più “forte” portata in scena dal regista rimane senza dubbio quella della dialettica di “The prestige” (lo scontro fra illusionisti disposti a tutto pur di soggiogare il proprio pubblico: vi dice nulla?) non si può dire che Nolan non abbia voluto imprimere a questo terzo capitolo di Batman importanti sottintesi legati all’attualità (dalla politica bugiarda e imbonitrice di Bane alla rozza giustizia di tribunali improvvisati fino ai riferimenti all’alta finanza nella sequenza dell’occupazione letteralmente “fisica” della Borsa di Gotham). Terzo capitolo che marca ancora di più quei sottintesi morali e politici infiltratisi in maniera latente nei due capitoli precedenti e qui esplicitati con maggiore chiarezza.
Morale e politico dunque ma anche melodrammatico, perché il ritorno del cavaliere oscuro è anche, forse, il primo vero mélo di Nolan, il suo film a più alto tasso emotivo in cui le lacrime trattenute di Alfred o quelle leggere ma brucianti di Bane definiscono la mappa sentimentale del suo regista che, per qualche attimo, sembra tentato dall’abbandonare gli schemi perfetti e razionali del suo potente affresco finale per abbracciare quelli imprevedibili e “catartici” dell’emozione. Non è un caso che il film sia attraversato e segnato dalla presenza di una “gatta” opportunista e dark, letale ma non del tutto amorale che riesce a sintetizzare benissimo, grazie alle fattezze carnose e innocenti della Hathaway, sia il rancore vendicativo degli oppressi di Gotham che un melanconico e sottaciuto, quanto disperato, bisogno di amare. E che una delicata commozione possa insinuarsi anche entro gli schemi rigidi e affascinanti di un cinema a “tesi” come quello di Nolan non fa che rendere queste emozioni ancora più intense. E se, alla fine di tutto, la tentazione di giocare ancora a “Inception”, nelle battute conclusive, è ancora forte, l’immagine che preferiamo portarci nel cuore è quella del sempre splendido Michael Caine che nelle vesti di Alfred saluta dal suo tavolino in un bar di Firenze. Per chi scrive è forse la sequenza più bella dell’intera trilogia.