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The Darkroom Project su granbelblog

Da Collettivowsp @collettivowsp

1. Quando ho chiesto a Luciano Corvaglia, salentino di origini, come nasce l’idea di adibire per tre giornate a luogo di fotografia e di produzione fotografica da negativo un convento nel cuore del Salento, mi dice che fa questo da trent’anni, che gli stampatori da negativo in Italia sono rimasti un mucchietto sparuto e che anche a Roma, nonostante l’interesse un po’ più acceso verso quest’arte , i laboratori sono luoghi in via di estinzione. “Questo non può essere un lavoro”, dice. Camera oscura. Camera chiara. Come dire eternamente interno/esterno, realtà/finzione, vita/morte. Come dire utero pieno, buio che plasma l’immagine nell’acquatico. Ogni discorso sulla fotografia si fa complesso, perché pur sempre si tratta della bugia più vera e la magia più umana che la tecnica abbia mai conosciuto.

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2. Muro leccese alle sei del pomeriggio sembra come certe paste di crema, l’impressione è di precipitare nel vassoio dei dolci, solo immersi in una luce lattiginosa e profumata di pietra. Nel bianco del Convento dei domenicani ci accolgono le ragazze sorridenti dell’Associazione Wide Shut Photography. Tutto è pronto come un rituale brulicante e mesto insieme, aperto ed intimo allo stesso tempo. A centocinquant’anni dall’invenzione della Kodachrome, il colore che conquistò le masse e fece arricciare il naso a molti famosi fotografi e in piena epoca di Photoshop spinto, ecco riallestito il tempio del bianco e del nero, bipolarità assoluta, il visibile e l’oscuro.
Non mi aspettavo un’immersione così densa e così massiccia di fotografi e fotografie in esposizione, due piani intono al chiostro centrale e più di 200 fotografie di fotografi giovani e meno giovani tra cui nomi di noti come Luciano Corvaglia (fotografo e organizzatore) e Piero Marsili Libelli , fotografo reporter e performer che realizzò il primo e unico set fotografico con un Antonioni al tramonto della sua avventura terrena , scatti confluiti nella mostra del 2009 “I silenzi di Michelangelo”. Nel chiostro grandi schermi e lampadine appese per la performance di tarda serata “La Camera Chiara” proposta da Libelli, il primo esperimento di camera oscura a celo aperto. Tutto è ancora da assaporare.

3. Molto presto, nella società borghese, l’ipotesi che le macchine fotografiche fornissero un’immagine impersonale e oggettiva della realtà, dovette cedere al fatto che le fotografie non attestano soltanto ciò che c’è, ma ciò che un individuo ci vede, come una valutazione del mondo; Nasceva allora la “visione fotografica“ , che era insieme un nuovo modo di vedere e una nuova attività da svolgere, ci ricorda Susan Sontag. Furono i fotoreporter a sancire l’inizio di questa visione, cioè scoprire la bellezza in ciò che uno vede ma trascura perché giudicata banale, ma soprattutto in bilico continuo tra il compito di mostrare la realtà oggettiva (la verità) e la primitiva finalità di abbellirla. Orde di fotografi con attrezzature sempre più maneggevoli rispetto agli ingombranti esordi del mezzo, partivano per i loro “safari culturali” e catturavano il mondo aspettando anche per ore il “momento giusto”. Alfred Stiegliz, celebre fondatore di Camera Work, racconta di essere rimasto per tre ore sotto la bufera di neve del 22 febbraio 1893 “ad aspettare il momento adatto”per realizzare la sua famosa fotografia Inverno nella Quinta Avenue. Ma cosa sarebbe questo momento? E’ quello in cui si possono vedere le cose in maniera nuova.
Ma siamo poi sicuri che con la fotografia si possa vedere qualcosa? La butto lì, temendo lo sguardo austero e segnato di uno stampatore che nonostante i tempi digitali, in camera oscura ci passa ancora giornate con fatica, precisione, sacrificio, lo stesso spirito che, forse e paradossalmente, ci metteva un Baudelaire o un pittore di metà ‘800 nel demonizzare il nuovo mezzo così volgare , in cui la mano e l’ingegno dell’uomo era sorpassato dal meccanismo e dalla chimica del Dagherrotipo!
M’immergo ancora nell’oscuro.

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4. Mi soffermo sugli scatti di Dario Coletti “L’uomo nero e lo sciamano e la documentazione dell’invisibile” Ovodda , 1995

“Quasi mai gli eventi si manifestano con chiarezza. E’ questo quello che impari quando cominci a documentare. Raccogliere immagini e informazioni e solo la prima parte del lavoro, quello della verifica è quello più importante. Analizzare ogni particolare, farlo corrispondere con altri indizi fino a quando il quadro generale non è chiaro. Per un fotografo raccogliere tracce consiste nell’isolare i segni presenti all’interno della situazione (scena) e indicare una chiave di lettura che ne sveli i significati più nascosti.”

Le parole di Coletti ci fanno pensare a quanto la fotografia abbia sempre un po’ a che fare con l’indagine poliziesca e scientifica e allo stesso tempo traccia mistica e porta dimensionale e di-svelatrice:

“Quando si assume questo ruolo ci si comincia a muovere in un universo di archetipi, figure di sintesi che scaturiscono da dimensioni insondabili.(…) Bisogna farsi Sciamano, usare i suoi strumenti. Lanciare dadi di ossa di animali e attraverso la loro combinazione prevedere. In questo gioco è il caso che predispone tracce e indizi e chi documenta deve saper cogliere il tempo in cui la loro combinazione forma significati, traccia responsi.”

qui il fotografo è visto come chi getta la sua lancia-scudo lungo il percorso di caso-desiderio, per una visione Scia-mana che è sensibile ai segni dall’oscurità-luminosa del reale.

“E’ già tardi quando incontro l’uomo nero. E’ su una carrozzella spinta da un asino, e canta parla e offre vino. Quasi non ce la fa ad alzare il bicchiere. Ci incrociamo e ci fissiamo. Quasi non ce la faccio ad alzare la fotocamera. Ma quando siamo proprio di fronte, la potenza del suo sguardo, la forza del suo canto farneticante mi regalano un ultimo atto di energia. Per tutto il resto non si può far altro che lasciare fare al caso. (…)

La fotografia è un modo di immergersi nel mondo senza annegarvi, uno schermo-finestra, uno schermo-specchio. In questo scritto in cui Coletti racconta dei rituali di un mercoledì delle ceneri in un paese della Barbagia, quasi si percepisce uno stato alterato di coscienza dell’operatore -non unicamente dovuto al bere vino- che favorisce una sorta di autonomia inquietante e perturbante del mezzo.

5. Il tourbillon continua, e tra gli scatti di Carlo Marras,Daniele Coricciati, Annibale Greco, Angelo Turetta, Lia Pasqualino ed altri ancora, mi imbatto in “ANIME” di Andrea Pacioni, un lavoro davvero bizzarro in cui la fotografia è scarnata, o meglio spellata dalla sua superficie,dal suo supporto. Panni stesi dove ectoplasmi appaiono senza corpo ne supporto, in una gabbia di vetro dove la leggerezza zuccherosa dell’immagine stride implode in un senso di claustrofobia.

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Gli organizzatori sono in fibrillazione, le tre giornate vogliono essere un’occasione unica -almeno da queste parti- per chi, appassionato di fotografia analogica o sperimentatore più o meno esperto di camera oscura voglia confrontarsi ed ottenere spiegazioni tecniche sul lavoro che gli stampatori hanno realizzato sui negativi, per portare avanti un’arte e un processo, che per motivi di mercato rischia davvero di scomparire del tutto, ma soprattutto, e questa mi sembra la ragione più originale, per raccontare il sottile legame tra fotografo e stampatore, il momento in cui chi è in camera oscura, muovendosi come in un campo minato, cerca di entrare in sintonia con la traccia e il pensiero che il fotografo ha affidato alla pellicola. A volte l’alchimia riesce, provocando e ri-proponendo la commozione, lo spaesamento e il senso di prodigio, che le prime prove destavano agli esordi del fotografico. La notte è scesa. Libelli e lo staff dispongono il necessario per la performance “La Camera Chiara”, l’ esperimento di camera oscura all’aperto dedicato alla fotografia di guerra, installata nel chiostro. Nella quasi totale oscurità, omini vestiti con tute ospedaliere e mascherine a ritmo di suoni contemporanei che evocano paesaggi di guerra, imbevono i pannelli di emulsione per far apparire sui pannelli, sorprendentemente, vere e proprie fotografie, come accade in una comune camera oscura. L’atmosfera è di suspense surreale, molto intensa, ma all’accensione delle luci ci dicono che qualcosa non è andato, il cielo limpido con la luna piena ha schiarito troppo questa Camera Chiara di Libelli,non permettendo la riuscita dell’esperimento. Bene comunque, questa probabilmente è la metafora migliore per una pratica che nel corso dei decenni è vissuta di mille sacrifici, tentativi, intuizioni, delusioni, eccezionali ri-velazioni; e poi già Brassaï l’aveva detto: “La notte svela, non mostra”!

Gioia Perrone, su granbelblog

Leggi anche Il lato oscuro della fotografia su Repubblica.it



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