Magazine Cultura
Sono tornati dopo 26 anni dal loro primo convegno cittadino e nulla è cambiato, il Sindacato del Sogno rimane una delle più incredibili, eccitanti, generose e oneste band di rock underground che siano mai esistite. Mettetevi il cuore in pace, intellettuali, professorini, storiografi, opinionisti di tendenza e quant'altro, è vero che il rock underground di stampo metropolitano lo hanno inventato i Velvet Underground ma chi ci ha mandato in orbita e ancora non siamo scesi da quella galassia non sono le pallide riesumazioni di quel combo di viziosi e viziati ma i Dream Syndicate di Stevie Wynn, gli unici a fondere in un solo show gloria, rabbia ed epica del rock n'roll. Poteva essere una rimpatriata tra amici, qualcuno con molti capelli bianchi (il batterista Dennis Duck), qualcun'altro sempre vestito di scuro e col fisico asciutto (l'eterno giovane Steve Wynn ed il bassista Mark Walton), un rendezvous un po' nostalgico ma credibile perché all'insegna delle cruditès elettriche urbane di cui loro sono abili gourmet ed invece quello del Bloom è stata la dimostrazione che questa band ancora oggi riempie un immaginario rock che abbisogna di ribelli che non si piegano alle logiche del mercato musicale ma suonano con una urgenza ed energia dettata dall'istinto e dal puro piacere di trovarsi in sintonia con un pubblico che vuole da loro la primitiva eccitazione del rock n'roll. Hanno illuminato i confusi e per certi versi insopportabili anni ottanta ma il tempo ha dimostrato che non sono stati una meteora bensì una pagina inossidabile della storia del rock, la conferma arriva dai tanti che li hanno aspettati al Bloom per uno show di straordinaria intensità e partecipazione emotiva, un premio per chi non si accontenta dei compitini buoni per far contenta la maestra spacciati oggi come l'ultima novità del rock. Altro che Mumford & Sons, altro che Avett Brothers, altro che Band of Horses, altro che Muse, tanto per buttare lì nomi tanto diversi tra loro e tanto insipidi nel creare la leggenda ed il mito del rock n'roll, che invece nelle canzoni e nelle chitarre tagliagola dei Dream Syndicate continua a pulsare come fosse uscita ieri dalle cantine del Paisley Underground. Forse un tempo, negli anni ottanta, era più facile immedesimarsi nel loro sound e nel loro gesto, si era in quella fase di ricerca di un senso esistenziale, di una identità, di complicità culturali e comportamentali, oggi la vita ha in parte diluito il sentirsi sul lato selvaggio della strada, si è diventati adulti, qualcuno ha messo su famiglia, sono arrivati i figli, sono arrivate le responsabilità imprescindibili, il lavoro quando c'è è quello che è, la terra promessa è solo una illusione, ma chiunque li ha amati nel profondo ancora adesso, in qualche momento, sente urlare dentro di sè quei giorni del vino e delle rose che ti tengono vivo, arrabbiato, resistente, felice nell'abbandonarsi, come è successo la sera del 29 maggio al Bloom di Mezzago, ai versi romantici ed esaltanti di Boston e di Merrittville, alle rasoiate elettriche di Medicine Show, Tell Me When It's Over e Now I Ride Alone, al trance acido e psichedelico di John Coltrane Stereo Blues, alla furia iconoclasta di The Days of Wine and Roses, alle cadenze ipnotiche di Burn, alla dolcezza di When You Smile. Questo è il rock, queste sono le emozioni, questi sono i Dream Syndicate, pur stando come delle sardine calde in scatola nello stretto spazio del Bloom (incredibile come ,dopo la chiusura del Rolling Stone, non ci sia a Milano un locale degno di un concerto rock) gli invecchiati blouson noirs del rock a serramanico hanno vissuto un grande e sotterraneo rito elettrico come ormai è raro vederne. A fianco dei tre originari Dream Syndicate oggi non c'è più Karl Precoda, menzionato da almeno il 50% dei presenti e nemmeno il suo sostituto Paul Cutler ma un Jason Victor che sa il fatto suo, sparge lapilli di psichedelia ed è più punk di un Dead Kennedys, si torce attorno alla Rickenbaker estraendo frizioni di una California fuori dal controllo, si butta a terra abbracciato al suo strumento come fosse Mick Jones dei Clash ai tempi del tour Usa di London Calling, crea un dualismo con la Telecaster di Wynn che in John Coltrane Stereo Blues evoca non solo la libertà di improvvisazione dell'hard-bop ma prefigura anche il feedback dissonante e melodico di Wilco con Neels Cline che proprio da qui sembrano partiti per il loro viaggio dentro i meandri dell'elettricità rock del futuro. Basterebbero le devastanti e schizzate versioni di The Days of Wine and Roses e John Coltrane Stereo Blues per azzerare parte del grunge e ridurre a ruolo di epigoni i Nirvana ma a Wynn e soci non importano le cattedre e lo si vede come stanno sul palco e stravolgono quella che doveva essere una semplice reunion, non lesinano su nulla, ne sui tempi, ne sulle canzoni, ne sui bis ( due, con Merritville e con una versione all'anfetamina di Let It Rain di Clapton), ne sulle divagazioni strumentali sempre mirate a creare un caos violento e illuminante che porta all'apoteosi il pubblico senza sedurlo ma saturandolo di eccitazione, soddisfazione, energia, benessere. Strepitosi, il miglior concerto rock dei primi cinque mesi del 2013, senza ombra di dubbio, due ore e passa di show incandescente e devastante, tutti i classici del loro repertorio, più qualche oscuro nuggets, echi di California punk e New York tra Velvet e Television, gloria, furia, rabbia ed epica del rock n'roll, se qualcuno se ne è dimenticato se ne vada pure a vedere i Mumford & Sons.
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