Siamo fatti così, di carne, di ossa, di pelle che riveste; in una sola parola: deperibili.
Come una pesca che marcisce se non la mangi entro un tot di giorni; e se non la mangi tu o la lasci sull’albero, potrebbero mangiarla insetti e uccelli.
E anche noi siamo fatti così: siamo esseri fragili con un inizio e una fine, l’infinito è solo delle idee. E dell’illusione dell’onnipotenza, del saper resistere a tutto, del poter fare e dire qualunque cosa uscendone illesi e felici: è una delle più grandi illusioni comodiste dell’uomo. Ma se Dio esistesse, ci metterebbe tutti in fila indiana e sputerebbe addosso a tutti quelli che coltivano questa illusione; e credetemi, la fila sarebbe veramente lunga, in mezzo ci sarei anch’io, e praticamente ognuno di voi.
La beffa è che, nonostante l’illusione, siamo fatti così: illuse membra eccitate, frivole o pedanti, accidiose o iperattive, ma sempre illuse membra fragili.
Così, un giorno ti ritrovi con qualche persona in meno attorno, e puoi avere 11 anni, come quando è successo a me, o 25, 30 e 50. Sarà esattamente lo stesso: ti crolla addosso una discontinuità che ti lascia incompiuto, qualcosa di indefinito che si delinea solo in virtù della sua opposizione alla vita.
Prima ti arrabbi, e neanche ci credi, neghi; quindi capisci, ti fai un pianto di mezz’ora (o forse di più se sei una persona sensibile), poi scappi dall’idea: a poco a poco rimuovi, ti abitui all’assenza. Al massimo ti lavi la coscienza con 4 messe all’anno poiché i cristiani ti parlano del paradiso felicissimo, di una dimensione differente da quella terrena, una dimensione migliore, libera dalla corruttibilità che è insita nella carne.
Ma in fondo, non sappiamo vedere nulla: niente che abbia sul serio a che fare con una vita radiosa dopo la morte, con l’idillio di un “passaggio” roseo, di una “prova” attraverso cui accedere a una continuità di esistenza in un’altra vita (Van Gennep).
In un modo o in un altro, quando qualcuno ci lascia non sappiamo far altro che trattare la “faccenda” come un capitolo che si chiude. Come cessazione, termine, dissoluzione, the end.
Siamo troppo intenti a scappare a gambe levate per fermarci a vedere, a pensare, a farci un’idea che vada oltre quelle precostituite “funerali-messe d‘espiazione dei peccati-fiori al cimitero-fuga“.
E siamo anche bravissimi a prenderci per il culo, mentre nelle nostre evolutissime culture occidentali – invece di elaborare il lutto e il dolore – ci impegniamo costantemente e con antico fervore a rimuoverli, allontanarli, o – nel migliore dei casi – a sperare nella reincarnazione favorevole, nella resurrezione nel regno dei cieli, in una rianimazione futura conseguibile attraverso le conquiste della scienza.
Sul fondo del barile di vino, però, resta che non siamo altro che artisti della fuga: fuggiamo dai nostri limiti, anche dal nostro limite ultimo, che è la vita, limitata per antonomasia.
Ce la facciamo sotto, e così la rendiamo sterile.
Accecati dalla paura della nostra stessa marcescibilità, non possiamo capire, pensare, né attribuirvi un senso personale. Invece, avrebbe un figlio questa Morte che si accoglie e si rispetta nel dolore, rimettendo in circolo parole, carezze, sentimenti che non devono andare perduti, separati, rimossi, allontanati, fuggiti …o continueranno a vivere nelle nostre viscere e a torturarci in silenzio.
Il buon Freud e tutti i suoi proseliti non hanno fatto altro che donarci in eredità l’idea che l’unica strada per la felicità sia l’accettazione ultima ed emotivamente carica di tutto, dei fantasmi, dei corpi e dei limiti, di Lei, che ci porta via pezzi di noi stessi e delle nostre storie passate ogni volta.
D’altronde, a che serve mettersi di fronte a dei corpi rigidi, a degli articoli di giornale sull’ennesima rockstar defunta, a delle foto delle ennesime stragi di qualche killer fanatico del Nord Europa solo con stracci di indifferenza? Di abitudine? Di penosa e inutile rassegnazione?
Non sarebbe meglio imparare ad accogliere e conservare la storia, capire, ricordare, prendere con dolcezza consapevole quei pezzi di vite che sono andate via? Non sarebbe meglio non diluire dell’oblio quei momenti preziosi della vita di chi non vive più? Raccontarsi la nostra e altrui vita a partire dalla consapevolezza della sua morte, piuttosto che impegnarsi solo a scappare?
Noi possiamo scegliere: restare di carne e sentire solo il dolore dello squarcio, dell’abbandono, della rovina ineluttabile, o afferrarci al circolo di bene psichico da rimettere in moto, che poi è anche un prendersi cura di se stessi e insieme un atto di amore infinito per chi può continuare a vivere dentro di noi, accolto nelle sue storie passate, presenti e future che siamo ancora una volta noi.
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“Morte” – “così è (se vi pare)” – qui ed oggi è soprattutto “epilogo dell’esistenza“.
Ma è un epilogo che ha un significato spesso pregnante, che porta le menti elette, sensibili, riflessive a capire che cosa rimane di quell’esperienza unica che è la vita.
Paradossalmente, allora, “Morte” è un’opportunità di possibilismo che parte dalla costitutiva limitatezza del nostro “esser-ci” e si trasforma nell’immortalità impersonale della vita psichica …rispetto a cui morire biologicamente implica il ri-sorgere in un Altro tutto mentale, e adesso sì: imperituro.
Non dovremmo perderci questa possibilità.