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La prima volta che ho visto un gruppo di ragazzine ballare di fronte allo specchio osservandosi come se stessero in televisione è stato a Bangui, la capitale dello stato più dimenticato d'Africa, la Repubblica Centrafricana, conosciuta ai pochi soprattutto per la ridicola vanagloria di Bokassa, il miserabile dittatore di turno che si era autoproclamato imperatore.
All'epoca andavo nell'unica discoteca della città, che apriva presto e chiudeva presto causa coprifuoco. Avevo anche scritto un articolo per il settimanale Carta, in cui parlavo di attempati uomini bianchi in cerca di sesso e di ragazzine africane in cerca di soldi, uno degli incontri d'interesse più comune del continente.
In una discoteca di Libreville, capitale del Gabon, la visione è tornata: bellissime donne in abiti luccicanti che ballano allo specchio canzoni di Micheal Jackson o Madonna, mentre bevo champagne a sbafo, gentilmente offerto dal boss di una compagnia francese di telefonia. Passano le ore, passano i bicchieri di vino, passano le canzoni. Qualcuno continua a ricordarmi che domani mattina si gioca a calcio alle sette, ma il pensiero è lontano e sfumato, come le riunioni di lavoro che seguiranno o la finale della Coppa d'Africa tra l'invincibile Armada della Costa d'Avorio e gli sconosciuti dello Zambia. E quindi ballo, come non mi capitava da un po', perché a Zurigo o si balla musica house oppure niente. Poi rientro in albergo che il sole sorgerà a breve. Sono in macchina con il mio amico francese, che credevo un po' rigido e invece scopro il fratello gemello di John Travolta.
Quando alle 6 e 55 suona la sveglia e apro le tende penso che sono proprio un idiota a svegliarmi così presto. Il cielo è grigio, l'asfalto bagnato, ha piovuto tutta la notte. Nonostante sia convinto che sarò l'unico imbecille a presentarmi in maglietta e pantaloncini, con un certo peso sulla testa, decido di andare. Prendo l'ascensore e arrivo a piano terra dove incontro Nicolas, il primo degli otto peones sulla lista dei giocatori, ma anche l'unico che è andato a letto prima di mezzanotte. Così ci ritroviamo in due ad aspettare sul campo da tennis dell'albergo, sotto un cielo plumbeo, alle sette di mattina. Poi arriva un terzo, il direttore dell'albergo, reclutato più per fare numero che altro, poi un quarto, un avvocato di una squadra di calcio francese. Via via arrivano tutti, anche quelli che sono rientrati pochi minuti prima direttamente dalla discoteca. Manca all'appello solo un nome, il più celebre, quello per cui tutti - compreso me - hanno fatto la levataccia. Arriverà veramente? Chissà, ha detto "se non mi vedete iniziate senza di me". Le speranze sono poche. E mentre qualcuno sta già parlando di giocare senza di lui, ecco che spunta da dietro l'angolo. Ed è prorpio lui, le Roi, il mio mito d'infanzia. E come se niente fosse si mette a giocare sul campo da tennis scivoloso, con le porte segnate da due birilli di plastica, tra gente che scivola e cade per terra come se stesse giocando a hockey. E anche se lui corre poco, il pallone gli rimane incollato al piede, il passaggio è millimetrico, lo stop di petto è lo stesso di trent'anni fa. Per un'ora, in qualche metro quadrato, il calcio professionistico e quello superamatoriale si danno la mano e fanno una passeggata assieme, prima che tutti corrano sotto la doccia e riappaiano nelle fattezze di tutti i giorni, dimenticando - ma solo per un attimo - di essere stati invitati al tavolo del re.
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