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the gerber syndrome

Creato il 10 novembre 2011 da Albertogallo

THE GERBER SYNDROME (Italia 2011)

Questo film è stato presentato in anteprima all’11esima edizione del ToHorror Film Fest, martedì 8 novembre 2011.

“Chi è già più quel regista… Horror…”
“Ma chi, Brian De Palma?”
“Ma no, quello vecchio, morto…”
“Boh”
“Quello della doccia… AAAAH!” (gesto di mano che stringe un coltello)
“Ah, Hitchcock!”
“Sì, lui mi sa”
Non inizia nel migliore dei modi la mia serata al ToHorror Film Fest, con questi due post-adolescenti ancora brufolosi che cianciano inconsapevolmente di cose che dovrebbero lasciar stare. Anche perché ne cianciano in coda, e la coda dura più di mezz’ora: persino in un festival “intimo” come questo la maledizione dei “piccoli problemi di organizzazione, è la prima sera, bisogna prendere le misure” fa il suo corso regolare. Rimango perplesso quando capisco che l’attesa è determinata dal fatto che, invece dei soliti biglietti del cinema, a chi acquista un ingresso viene dato un foglietto tipo ricevuta fiscale, con tanto di timbro e causale. In ogni caso, grazie anche a un “piccolo aiuto dei miei amici” (in questo Paese se non hai una raccomandazione non entri nemmeno al cinema), riesco a raggiungere la sala. Il prezzo del biglietto (4 euro) è giusto, e il Blah Blah di via Po è decisamente gremito. Trovo un posto in seconda fila. Due guardie armate, con tanto di casco e manganello, si aggirano tra le poltrone distribuendo qualcosa: si tratta, scopro, del volantino del film che sta per essere proiettato (The Gerber syndrome, ne parlo tra un po’) e di una mascherina da ospedale, di quelle che la gente indossa per strada (non si sa bene perché) quando, a cadenza più o meno annuale, vengono diffusi nel mondo inutili allarmi su ipotetiche influenze letali. Il film parla proprio di questo, di un’influenza letale – nella finzione non più così ipotetica –, e le guardie sono lì per creare una specie di evento multimediale post e extra cinematografico. Molto americano, mi piace. I due sfigati che ce l’hanno con Hitchcock prendono posto un paio di file dietro di me, e in quel momento mi accorgo che il pubblico non è proprio quello che mi sarei aspettato da un festival di cinema horror. Avrei pensato, che so, di trovarmi circondato da un manipolo di gente vestita da Freddy Krueger, o esperti con la puzza sotto il naso tipo “Lucio Fulci è mille volte meglio di Dario Argento”, o tipi dark sull’orlo del suicidio. Roba così, insomma. Il pubblico del ToHorror, invece, è piuttosto eterogeneo: c’è gente che, come me, si trova lì un po’ per caso, studenti universitari, quarantenni dall’aria anonima, un paio di bambini… Si scorge, qua e là, qualche volto noto del sottobosco cine-teatro-culturale torinese, e incontro un paio di persone che conosco… Niente di particolarmente pittoresco o specialistico, insomma, un’audience da normale mercoledì sera al cinema. La sala dove vengono proiettati i film, in compenso, è abbastanza particolare. Innanzitutto perché è molto piccola (una quarantina di posti, credo, anche se non sono mai stato bravo a quantificare le cose), poi perché le poltroncine, invece di essere saldamente agganciate al terreno come di consueto, sono dotate di rotelle (elemento che presenta i suoi pro e contro, ne converrete), infine perché lo schermo – sotto il quale la strumentazione rock per il concerto post-proiezione è già bella montata – è, purtroppo, pure lui piuttosto ridotto. In ogni caso inizia lo spettacolo, abbastanza puntuale. Un’ultimissima nota di colore prima di parlare, finalmente, di The Gerber syndrome, giusto per dire quanto può essere forte la suggestione prodotta da un film, o anche solo dalla sua attesa. Questa pellicola, si è detto, parla di un morbo letale e incurabile che minaccia l’umanità. Ecco, dopo nemmeno dieci minuti di proiezione il tizio di fronte a me rovescia la testa all’indietro. E lo fa più volte, per un buon quarto d’ora, a mo’ di yo-yo: butta il cranio spelacchiato in direzione delle spalle (ovvero, a causa delle sedie a rotelle di cui si diceva prima, praticamente addosso a me), poi rimbalza in su, poi sta un po’ in equilibrio con la testa dritta e infine ricomincia la trafila. Ovviamente stava dormendo (il fatto che il film iniziasse alle 20.30 non è bastato a contrastare la terribile stanchezza di quel tale), ma sul momento ho pensato seriamente che stesse male, e stavo per chiamare qualcuno. Anche perché non emetteva alcun suono, nemmeno quel lieve ronzio che generalmente la gente produce quando dorme. E poi, di solito, quando uno si sente cadere indietro la testa dopo un po’ si sveglia. No, lui no, dormiva come un bimbo, lui, rimbalzando il cranio all’indietro nel più naturale dei modi. Quando ho capito che non aveva alcun morbo letale ho cominciato a pensare che si trattasse – come nel caso delle guardie armate – di una specie di strategia di marketing, del tipo “Facciamo finta che uno si sente male durante la proiezione, così la gente si spaventa e domani i giornali parlano di noi”. Niente di tutto ciò. Sonno. Puro, semplice, innocuo e innocente sonno. I tizi improponibili me li becco tutti io, al cinema.

The Gerber syndrome, dunque. L’argomento non è dei più originali (di morbi letali se n’è visti parecchi al cinema, ultimamente), così come il modo di affrontarlo, trattandosi in tutto e per tutto di ciò che si suol definire mockumentary, ovvero finto documentario. Anche di mockumentary se n’è visti parecchi, ultimamente. In ogni caso, pur trattandosi di un’opera prima a bassissimo budget e pur non mancando evidenti ingenuità, il risultato non è niente male. Innanzitutto perché il fatto di essere un finto documentario aggira furbamente l’annoso problema del cinema di genere italiano, ovvero la recitazione: gli attori, per la maggior parte, recitano la parte di se stessi (o, meglio, la versione di se stessi nel mondo possibile creato dal film), cosa che rende accettabile lo scarso livello generale di dizione e pronuncia (sebbene uno dei protagonisti, lo sbirro acchiappammalati, abbia un modo di parlare davvero insopportabile, da tamarro torinese fatto e finito). Poi perché, pur inserendosi in un genere ben definito, The Gerber syndrome riesce a non somigliare eccessivamente a cose già viste: i malati-zombie, ad esempio, non sono né troppo simili ai babbioni addormentati di Romero né agli atleti sotto anfetamina di Danny Boyle. Anzi, qui è presente – in modo originale – un miscuglio di entrambi gli approcci, dal momento che la malattia ci viene mostrata in tutte le sue fasi, quella violenta e quella più “zombesca”. Altri elementi di interesse del film: il fatto che (a evitare l’effetto Rec e simili) vengano moltiplicati i punti di vista (lo sguardo è sempre quello della telecamera del finto documentarista, ma a parlare sono, di volta in volta, un medico, il già citato sbirro, un prete, varie autorità, contestatori di strada ecc…) e il fatto che, sotto sotto, sia presente una certa dose di critica sociale, uno sguardo intelligente che sfocia, talvolta, anche nella satira (i consigli di Topo Tino per non prendersi l’influenza sono simili a quelli realmente trasmessi dalla tv italiana qualche anno fa, spot che avevano come protagonista Topo Gigio). Il finale vorrebbe essere a sorpresa, ma il colpo di scena (i “terribili effetti” della cura del morbo) è un po’ telefonato. Un buon film d’esordio, comunque, che non può che suscitare qualche rimpianto sullo stato dell’industria cinematografica italiana, specialmente quella di genere: forse che, se si investissero più soldi, anche noi avremmo qualcosa da dire, in ambito horror? D’altronde, di storie e suggestioni paurose, la realtà italiana potrebbe offrirne non poche.

Alberto Gallo



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