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C'è un film del 2007 - ben cinque anni fa - inedito in Italia (ma quando mai) e ispirato a fatti realmente accaduti, quelli a Sylvia Likens nel lontano 1965. Si tratta di The Girl Next Door di Gregory Wilson. Un film che sintetizza esattamente quello di cui parlavo qui su: il dolore.
1958: Meg è una ragazza che in seguito alla morte dei genitori, viene affidata assieme a sua sorella disabile alla zia Ruth, sociopatica e alcolizzata. In breve tempo inizierà una vera e propria escalation di follia, fatta di segregazione, torture psicologiche e fisiche. Il tutto visto e raccontato dagli occhi di David, un ragazzino innamorato di Meg.
Trasposizione del romanzo omonimo di Jack Ketchum, forse lo scrittore americano horror più estremo (di cui ho parlato a proposito di un altro film ispirato ad una sua opera narrativa, The Woman), The Girl Next Door è un film duro come forse non se ne sono mai visti, caratterizzato da una violenza sottile perchè mai plateale, che percorre il film sottopelle proprio come la pazzia che racconta. Una pazzia piccolo borghese che esplode in un giorno qualunque travolgendo la tipica comunità provinciale americana. Il secondo lungometraggio di Wilson però non è il solito ritratto della provincia americana, ma la rappresentazione di una realtà apparentemente solare, tipicamente televisiva, dai tratti hollywoodiani e che si riallaccia alla tradizione del romanzo di formazione americano alla giovane Holden (o a quella del cinema alla Stand by Me). Un'apparenza infranta sin dai primi minuti, in cui la promessa di qualcosa di atroce non fa altro che tenere lo spettatore sul filo del rasoio, in attesa che quel qualcosa accada. Questo rende l'attesa insostenibile e permette di leggere la realtà che ci viene raccontata in maniera differente, forse prevenuta, più cupa e infelice.
L'orrore di questo film è un orrore subdolo che si nasconde ovunque, nella casa accanto alla propria ad esempio, e che come un virus contagia chi ne viene in contatto divenendo anche il suo, di orrore. Questo succede a David (Daniel Manche), dilaniato dal destino di Meg ma incapace di sottrarsi ad un meccanismo contorto che rendendolo partecipe di quell'orrore, lo rende automaticamente colpevole (e in questo caso la sua colpa è l'omertà).A sua volta Meg (Blythe Auffarth) diviene simbolo duplice, da un lato martire che nonostante l'inferno che si trova ad attraversare riesce a non cadere mai al livello dei suoi aguzzini, da un altro vittima indifesa, proprio per questo impotente. I due lati di una donna come sempre è stata rappresentata da Ketchum, che la rendono al tempo stesso un'essere elevato e il recettore su cui convergono gli istinti più bassi dell'uomo. Non una visione misogina però, perchè il fautore del male qui è esso stesso una donna, zia Ruth (Blanche Baker), che avendo perso la propria innocenza e la propria purezza prova a strapparla via a chi le sta attorno, cercando di perpetuare una catena di odio che vede la donna incarnazione di ogni male e l'uomo colui che, attraverso la violenza, lo estirpa.
La comunutà si scopre nel mezzo di questa dicotomia, troppo occupata nel proteggere se stessa per accorgersi di quello che accade al suo interno, spinta ad una sorta di voyerismo estremo che la porta a penetrare e financo a superare, anche con forza, i limiti dell'occhio umano. Proprio per questo il regista sceglie di non mostrare, si scosta quando la violenza diviene insopportabile ma la fa intuire, non si abbassa ad un estremismo estetico perchè non gli interessa: quello che rimane fuori campo fa più male di quello che viene mostrato, proprio perchè la camera non ha la forza di osservarlo.Un film doloroso The Girl Next Door, che brucia nelle viscere e ti si attacca addosso come fosse qualcosa di infetto. Mi è capitato più di una volta di distogliere lo sguardo durante la visione, nonostante le scene più forti vengano solo lasciate intuire, in maniere così ben costruita da risvegliare negli occhi dello spettatore immagini che nessuno vorrebbe mai vedere. La bellissima fotografia e le prove attoriali da Oscar facilitano questo compito, in un crescendo di crudeltà e dolore che esplode nel finale tristissimo e carico di pathos, persino delicato.
E alla fine, con le lacrime agli occhi, con quelle immagini impresse come un marchio a fuoco sull'anima, non si potrà far altro che ripetere "non è vero, è solo finzione", ma non è così e rendersene conto è come una stilettata dritta nel cuore.
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