E’ un libro che io farei leggere ai miei studenti o quanto meno lo consiglierei.
Non racconto la trama o la storia, non do cenni sulla biografia dell’autrice a introduzione della mia non-recensione, come sono solita consigliare in classe quando le mie vittime devono parlare di un film o di un libro.
Assumo l’approccio immediato che hanno i miei primini nell’affrontare un tema: dritta al punto e se non capisci di che sto parlando, fatti tuoi.
Il libro mi ha colpito perchè racchiude un messaggio a mio avviso importante e che sempre ho ribadito nella mia vita d’insegnante. Nella vita è necessario soffrire.
Di solito i piccini sgranano gli occhi, fanno il broncio atteggiato in un triste “ma perchè”, alcuni tentano il suicidio dalla finestra, altri si tappano le orecchie, alcuni improvvisamente hanno il bisogno di andare in bagno.
Ma la sofferenza e il dolore sono vitali, perchè ti rendono un essere umano, facendoti comprendere l’importanza della vita tua e di quella degli altri.
E il protagonista in questo romanzo soffre molto, perchè deve essere la memoria della sua comunità perfetta, monocromatica, uniformata, aliena da qualsiasi sofferenza.
La memoria, il ricordo può essere fonte di gioia, ma anche no. I ricordi brutti tentiamo di rimuoverli, ma sono sempre lì, ferite aperte pronte a pulsare nei momenti meno opportuni.
Sono quelle ferite che ci rendono vivi, che ci rendono umani capaci di assaporare la bellezza e di riconoscere la felicità quando la incontriamo. Sono quelle ferite che ci rendono complessi, complicati e ricchi di sfumature, e non piatti personaggi di una telenovelas sudamericana.
Questo libro lo spiega benissimo. Con parole semplici. Attraverso gli occhi di un ragazzino.
La vostra gioia è il vostro dolore senza maschera,
E il pozzo da cui scaturisce il vostro riso, è stato sovente colmo di lacrime.
E come può essere altrimenti?
Quanto più a fondo vi scava il dolore, tanta più gioia potrete contenere.
K. Gibran, Su Gioia e Dolore