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Se non avete mai visto un film di Anderson, forse non è esattamente il film dal quale cominciare! Perché The Grand Budapest Hotel è in qualche modo Anderson all'ennesima potenza, l'apoteosi del suo cinema, una quintessenza di tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, che allo sguardo di chi gli si avvicina per la prima volta può risultare spiazzante e in buona parte incomprensibile.
Vedere un film di Anderson è come salire su una antica giostra, dalla quale il mondo intorno non solo sembra improvvisamente proiettato in un passato imprecisato, e forse in qualche modo solo immaginato, ma subisce anche una forma di accelerazione e distorsione, che lo rende in buona parte innaturale e lontano.
Altrove ho già scritto che pur vedendo sullo schermo persone in carne e ossa si ha la sensazione di essere immersi in un cartone animato o di assistere a una puntata sui generis delle "comiche" alla maniera di Buster Keaton.
Ebbene tutto questo trova in The Gran Budapest Hotel una delle sue manifestazioni più alte e più articolate, da molteplici punti di vista. Innanzitutto per il contributo di un cast all stars (da Ralph Fiennes a Jude Law, da Willem Dafoe a Jason Swartzmann, da Bill Murray a Edward Norton, da Adrien Brody a Mathieu Amalric e moltissimi altri, tra cui una menzione va fatta per lo sconosciuto Tony Revolori che interpreta il co-protagonista da giovane), che si mette completamente al servizio della vena immaginifica di Anderson; in secondo luogo per l'esplosione di invenzione scenografiche che punteggia l'intero film; infine per la narrazione che ne è protagonista, una storia raccontata dal suo protagonista e rielaborata da uno scrittore nel suo libro, quella di Gustave H. (Joseph Fiennes), lo straordinario concierge del Gran Budapest Hotel.
Questa focalizzazione sull'atto del narrare - e dunque sulla parola - è certamente l'elemento prevalente in questo film, che sembra infatti trasmettere il piacere del racconto, la sua capacità di creare universi e mondi immaginati, al di là di qualunque realismo.
Dentro questa narrazione decisamente sopra le righe (una specie di fiaba noir ipercolorata), i dialoghi introducono a volte non solo gag e battute fulminanti, ma anche - sotto un'apparente illogicità - riflessioni profonde su questioni di grande attualità e interesse.
Un film davanti al quale rimanere a bocca aperta, continuamente sollecitati dalle invenzioni di Anderson; oppure davanti al quale annoiarsi e sbadigliare, per non esserci entrati in contatto.
E qui la debolezza del film dal mio punto di vista: la quasi totale incapacità di creare empatia con lo spettatore. Rispetto alla tenerezza di Moonrise Kingdom, The Grand Budapest Hotel lascia sì strabiliati, ma anche in buona parte indifferenti. E questo, per quanto mi riguarda, toglie molto alla visione di un film.
Forse Anderson si è fatto prendere un po' la mano dalla confezione e dallo script, ma ha lasciato un pochino a casa quel tocco di sensibilità di cui pure sappiamo essere straordinariamente capace.
Voto: 3/5
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