Regia: Wes AndersonOrigine: USAAnno: 2014Durata: 99'Attori protagonisti: Ralph Fiennes, Tony Revolori, F. Murray Abraham, Jude Law, Saoirse Ronan, Edward Norton, Willem Defoe, Adrien Brody, Bill Murray, Harvey Keitel
10 aprile. Penso che finalmente è uscito il nuovo lungometraggio di Wes Anderson. Subito controllo gli orari del cinema su internet e niente. Cioè proprio niente. Nessun cinema della mia zona passava questo film (Al Barbone avrebbe detto “meno male zio”). Panico totale. Ho cercato di recuperare il recuparabile di Anderson nei giorni precedenti, quindi ero carichissimo. E invece niente. Panico. Divento apatico per tutta la giornata, cerco appigli, pregusto il post-modernismo asciutto con tanto di fossantani con scappellamento a sinistra. Neanche Lo Sgargabonzi riesce a tirarmi su. Però, aspetto un giorno e magicamente un cinema mi sorprende, e espone la locandina di questo film. La sera stessa vado e mi sono gustato un gran lavoro. E voi potreste benissimo chiedervi “che bisogno c’era di fare questa supercazzola per dirci che hai aspettato un giorno per un film?”. Nessuno, ma questo è il bello di Internet.
Il conte Mascetti è fiero di me.
Ora facciamo i seri. Anderson è un regista che mi è sempre piaciuto, per la sua capacità di creare dei microcosmi sfaccettati e curati, e farti entrare in sintonia con quasi tutti i personaggi. Il tutto con estrema semplicità narrativa e di intenti, con una forte impronta personale, data da scenografie sempre bellissime e a tratti surreali, un gusto incredibile per la simmetria e una grande bravura nel creare personaggi che rimangano un po’ nell’immaginario. Penso ad esempio ai I Tenenbaum, un film ricco di personaggi memorabili. Penso a Max Fischer di Rushmore, a Steve Zissou e ai tre fratelli in viaggio nel Darjeeling Limited. Penso che Anderson per me è un grande, in fin dei conti. Ma parliamo del suo Grand Budapest Hotel, vincitore, tra l’altro, del Premio della giuria nell’ultima edizione del Festival di Berlino. La trama è semplice [cit.], e mi avvarrò di Wikipedia per spiegarla in 2 secondi e soffermarmi poi sugli aspetti più riusciti del film: “Nell'Europa di inizio Novecento, Gustave H, un concierge che lavora in un leggendario Hotel dell'immaginaria Repubblica di Zubrowka, diventa amico di uno dei suoi collaboratori più giovani, Zero Moustafa, il quale crescerà fino a diventare il suo protetto. La storia coinvolge il furto e il recupero di un dipinto rinascimentale inestimabile e la battaglia per un enorme patrimonio di famiglia.”
Lasciando un attimo da parte il cast di altissimo livello, innanzitutto la messa in scena è spettacolare. Da questo punto di vista Anderson si rinnova di film in film, con una maturazione estetica via via più evidente e sorprendente, con un’impostazione quasi teatrale ma al tempo stesso di grande respiro. Lungi da me fare paragoni azzardati, se non di più, ma per la forza visiva di alcune scene nei corridoi di questo hotel pensavo che a un certo punto si sarebbero palesati di fronte a me Jack Torrance e due gemelle trucidate sul pavimento. Il bello del cinema e delle pippe mentali insomma. Per non parlare dei personaggi che popolano questo zoo andersoniano, che sono tutti pezzi che vanno a comporre questo puzzle a tratti delirante, fintamente ingenuo o ottimista, ma che racchiude in sé una malinconia che sembra passare in sordina, ma così non è. Così non è mai, almeno per me, nei film di Wes (ti do del Tu cavissimo, spevo mi pevdonevai).
Gli attori funzionano tutti, dal nevrotico Ralph Fiennes con un prova davvero convincente alla sempre più camaleontica Tilda Swinton (penso anche a Snowpiercer), dal nostalgico Murray Abraham allo scrittore interpretato da Jude Law, il quale prende le sembianze di Tom Wilkinson più in là con gli anni, e che è/sono il/i motore/i di tutta la narrazione, che funziona alla grande e gira attorno alla vita di Gustave H, accusato ingiustamente di omicidio, catalizzatore di tanti avvenimenti che si susseguono freneticamente. Come non parlare poi dei due baldi giovani, protagonisti di una storia d’amore frettolosa ma pura come i due innamoratini di Moonrise Kingdom. L’amore ai tempi di Wes Anderson. Un amore senza troppi giri di parole. Oppure del malefico Willem Defoe; vorrei dire, immaginatevi questo Defoe senza capelli e avrete un Nosferatu versione 2(denti).0. Ed è qui, però, col personaggio appena citato, che Wes mi sorprende, adottando uno stile sicuramente più cupo, e perché no violento, rispetto agli altri film della sua produzione. Ma sempre con un’ingenuità infantile che non può che far bene al film, come se lui stesso fosse sorpreso da quanto stia avvenendo, arrivando a riflettere anche su certe logiche autoritarie presenti in Europa in quel preciso periodo storico, vale a dire il 1932.
Diventa quindi un monito a tramandare storie, a raccontarle, perché le storie sono potenti, aiutano, danno speranza e insegnano sempre qualcosa. Quello che cerca di fare Anderson, che viene fatto passare per il regista pazzerello-hipsterino-mammamiachebeicolori-vuoto ma che al suo interno, nel suo Cinema, ha molto di più. Ed è un approccio, il suo, che emoziona con semplici cose: con un primo piano, con una canzone, con un frase che potremmo dire tutti senza per forza aver letto Così parlò Zarathustra in svedese e al contrario. In questo film più che mai, che può risultare sì minimale, ma comunque compatto e senza sbavature di sorta, che arriva a toccare corde inaspettate anche per la capacità di rendere la storia del Grand Budapest Hotel (da importante albergo di lusso ad alberguccio in decadimento) come la storia dei personaggi che lo hanno popolato o che comunque sono arrivati a un certo punto della loro vita convinti che l’esperienza in questo hotel sia stata la migliore della propria esistenza. Basti pensare al personaggio di Zero Moustafa, rifugiato politico che trova come maestro di lavoro e di vita Gustave H e al quale sarà sempre grato (per motivi che non sto qua a rivelare perché di mestiere non faccio lo spoileratore), ritornando sempre a discorsi inerenti alla solitudine e su quale sia lo scopo della nostra vita.
Da non sottovalutare poi le riflessioni sull’arte e sull’importanza della stessa, visto che un posto principale è riservato a questo quadro trafugato dal valore inestimabile (che avrà come conseguenza una scia di sangue generata dalla coppia Brody-Defoe), come è inestimabile il valore del Cinema per Anderson, e che è evidente in questo film che consiglio sicuramente agli amanti di Anderson, perché non potranno non apprezzare questo film, più maturo a livello concettuale e visivo. Ma lo consiglio anche ai suoi detrattori proprio perché potranno trovare un qualcosa di diverso rispetto ai suoi film precedenti (spero), proprio per la maturità raggiunta sopracitata. Ma comunque sia Wes, non te la prendere, ci sarò sempre io a difenderti a spada tratta quindi puoi stare tranquillo e sereno. Digli poco.
Martin Scortese