L’eccentrico e geniale regista texano ci catapulta nell’immaginaria repubblica di Zubrowka, in un’Europa dei primi del Novecento che non c’è più, o che forse non è mai esistita. Più libero e fantasioso di un racconto di Lewis Carrol, The Grand Budapest Hotel è un paese delle meraviglie che ipnotizza e lascia continuamente a bocca aperta (quando non siamo impegnati a ridere). Un’eleganza e una minuzia dei dettagli come solo un film di Miyazaki saprebbe fare. E il riferimento al mondo dell’animazione è calzante, perché The Grand Budapest Hotel è un trionfo di colori, scenette, un po’ fumetto un po’ cartone animato, di personaggi così ricchi di sfumature mimiche e psicologiche che sanno fuggire le spettro della vacua macchietta. Gustave, Dimitri, Zero, Madame D. e tutti gli altri sono dotati di una simpatia sconfinata, e vorremmo conoscerli, importarli nella nostra sbiadita realtà, o ancor meglio tuffarci noi nella loro a dir poco arlecchinesca.
Tra farsa e melò, romanticismo e cinismo, un dolce ricchissimo e stilosissimo che solo il tanto decantato Mendl’s, forse, potrebbe eguagliare.
The Grand Budapest Hotel è grande cinema, un sommo inno all’invenzione e all’immaginazione come solo il cinema, attrazione per eccellenza, sa fare.
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