Magazine Cinema
(id.)
di Wong Kar-Wai (Cina, 2013)
con Tony Leung, Zhang Ziyi, Wang Qingxiang, Zhang Jin
durata: 133 min.
★★★☆☆
C'era una volta in Cina.
Che Wong Kar-Wai ami il cinema di Sergio Leone è evidente, e non solo per il tenero omaggio resogli dalla splendida Zhang Ziyi nel finale di The Grandmaster, con quel sorriso inebriante e dilatato dai fumi dell'oppio... Wong Kar-Wai ha atteso otto lunghi anni per girare questo film-testamento, spendendoci tante energie fisiche, psichiche ed economiche. Un progetto ambiziosissimo, la voglia di fare qualcosa di grande, di epocale, la voglia di rappresentare l'essenza e la storia di una nazione attraverso le sue arti e tradizioni.
The Grandmaster, nella struttura, assomiglia molto a C'era una volta in America: ci sono personaggi-chiave (reali e di fantasia) che si muovono in un contesto storico ben definito, che si dipana nell'arco di quasi trent'anni. Tre decadi che hanno segnato profondamente la vita di un paese immenso, vero protagonista del film. Wong Kar-Wai, come Leone, prende per le corna un genere cinematografico particolare (il wuxiapian in luogo del gangster-movie) per dipingere, nelle intenzioni, un grandioso affresco popolare basato sull'arte millenaria del kung-fu, che in Cina è una vera e propria filosofia di vita prima che straordinaria arma di autodifesa personale.
La storia, romanzata, è quella del leggendario Yip Man (Tony Leung) maestro di arti marziali passato alla storia per essere stato il mentore di Bruce Lee (anche se nel film di questo non si parla, se non nell'ultimo fotogramma...): siamo nel 1936 a Foshan, nella parte meridionale della Cina, dove il kung-fu si insegna nei lussuosi bordelli locali e dove anche le donne possono essere depositarie dei segreti dell'arte. Yip Man accetta la sfida fattagli del gran maestro del Nord Gong Baosen (Wang Qingxiang) di partecipare ad un 'epico' combattimento che dovrà stabilire quale delle due scuole di arti marziali (del Nord e del Sud) dovrà prevalere ed unificare il paese. La vittoria arride alla fine a Yip Man, e Gong accetta di uscire signorilmente di scena annunciando il suo ritiro. Ma la bellissima figlia Er (Zhang Ziyi), che nel frattempo ha affinato la micidiale tecnica dei 64 palmi, pur rispettando il divieto paterno di non combattere, affronterà Yip Man in un duello intriso di seduzione e grande coinvolgimento emotivo che sfocerà in una passione mai dichiarata tra i due e trattenuta dagli eventi (come in tutti i film di Wong Kar-Wai...)
Quello che ancora una volta stupisce è la capacità del maestro cinese di girare pellicole straordinariamente affascinanti e armoniose dal punto di vista stilistico: The Grandmaster è un film che esalta lo sguardo e la contemplazione, è impossibile non restare incantati dall'armonia e dalla perfezione di ogni dettaglio, dalla colonna sonora avvolgente e soffusa, dalla fotografia, da certe inquadrature 'tipiche', dal montaggio inconfondibile delle scene madri dalle quali appare davvero riconoscibilissimo lo stile del regista. Si resta a bocca aperta nell'assistere a sequenze di incredibile bellezza visiva come il combattimento iniziale sotto la pioggia, la danza di guerra sul prato innevato, il duello lungo i binari della stazione con quel treno 'infinito' che sembra non andarsene mai...
Detto questo, però, non possiamo fare a meno di rilevare quello che da sempre ci rende perplessi e diffidenti nei confronti di ogni opera di Wong Kar-Wai, ovvero della clamorosa discrasia tra la meraviglia delle immagini e la freddezza dei contenuti che caratterizzano ogni suo lavoro. E anche The Grandmaster non fa eccezione: il film resta sospeso per tutta la sua (lunga) durata tra affresco storico e melò, senza mai accendere nello spettatore la scintilla della passione, senza mai coinvolgerlo emotivamente. Ne viene fuori una pellicola 'ibrida', troppo limitata nei contenuti per farne un pamphlet politico sulla storia passata e presente della Cina, ma anche troppo trattenuta e repressa per essere un film sentimentale. E' un giudizio più emotivo che critico, ce ne rendiamo conto, ma ci viene proprio difficile esaltarci di fronte a immagini così belle ma glaciali, che troppo spesso instillano il dubbio di un'arte fine a se stessa, di un'autoreferenzialità diffusa. A questo contribuisce anche la recitazione degli attori, paradossalmente fin troppo 'perfetta' e impostata, che non ci coinvolge nella storia ma ci ricorda per troppe volte che stiamo assistendo, seppur soddisfatti, nient'altro che a un'ottima fiction.
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