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The Hateful Eight

Creato il 14 febbraio 2016 da Af68 @AntonioFalcone1

thehateful8-teaser-posterVia il dente via il dolore, così recita l’antico adagio e quindi, da sempre poco avvezzo ai mezzi termini o ai giri di parole, scrivo sin da subito che The Hateful Eight, ultima fatica di Quentin Tarantino, regista e sceneggiatore, mi ha sì avvinto ma non convinto fino in fondo. Ho avvertito infatti rispetto ad altre opere del geniale “masticatore pop”, come mi piace definirlo, un senso di preordinata costruzione, un affidarsi meno spontaneo e “puro” alle potenzialità del cinema in quanto tale, nella sua primigenia essenza volta a dispensare emozioni e forza affabulante in virtù tanto delle immagini quanto della potenzialità della narrazione.
Tarantino ci ripropone tematiche a lui care, vedi l’incedere degli eventi sullo scenario di un mondo in procinto di cambiare, dove non tutto è come sembra, ma, almeno ad avviso di chi scrive, troppo circoscritte all’interno della cornice di una insistita strafottenza nel gestire e mescolare i vari generi, con un calcolato manierismo a riempire il vuoto circostante. Intendiamoci, il film, pur nella sua ponderata ed insistita lentezza, in particolar modo nella parte iniziale, coinvolge ed affascina, non fosse altro per l’alta carica personalizzante propria del suo autore, che gli permette così di elevarsi ben al di sopra dei tanti, troppi, blockbuster hollywoodiani dall’omologata impostazione, ma resta la sensazione, almeno a livello personale, di “catalogo ragionato” fin troppo zeppo nel voler riportare ogni vezzo in odor di cinefilia che è propria del nostro.

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Tarantino mette in scena una ben orchestrata rincorsa fra realtà e finzione, uno scambio continuo di ruoli tra ciò che è umanamente falso e quanto storicamente vero, un gioco a nascondino fra quello che lo spettatore è “costretto” a vedere sullo schermo in base ad una costruzione, di scrittura e registica, intenta a mischiare spesso le carte in tavola. E’ il caso della splendida apertura con la panoramica sulle montagne e le circostanti distese innevate del Wyoming (ottima la fotografia, vivida, pregnante, di Robert Richardson), una carrellata all’indietro sottolineata dall’incedere inquietante e suggestivo della musica di Ennio Morricone porta la nostra visione sul ciglio della strada, l’inquadratura emblematica di un crocifisso ligneo, fino a riprendere l’incedere di una diligenza che avanza a fatica sfidando la coltre bianca, guidata dal cocchiere O. B. Jackson (James Parks), nell’intento di raggiungere la cittadina di Red Rock.
Da qui in poi la visione sarà delimitata per lo più in uno spazio chiuso, ma sempre volta a far sì che il pubblico si trovi a tu per tu con ogni singolo personaggio, catturato dall’incedere “naturale” e discreto della macchina da presa. Siamo a qualche anno di distanza dalla Guerra di Secessione e all’interno del convoglio vi sono il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell), detto Il boia, e la latitante Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), che l’uomo, come da sua abitudine, intende consegnare alla giustizia, perché questa faccia il suo corso.

Kurt Russell e Samuel l. Jackson

Kurt Russell e Samuel l. Jackson

Lungo il percorso, con la bufera sempre più incombente, ecco un uomo di colore chiedere un passaggio: si tratta del maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), con un passato di soldato dell’Unione ed ora “collega” del Boia, sua vecchia conoscenza.
Un altro passeggero si unirà all’insolito terzetto, tale Chris Mannix (Walton Goggins), un rinnegato sudista il quale sostiene di essere il nuovo sceriffo di Red Rock.
Ma la tormenta si approssima sempre di più, impossibile proseguire fino alla meta designata, occorrerà far sosta presso l’emporio di Minnie, fatiscente stazione di posta per diligenze situata in mezzo al nulla.
Ad accogliere i passeggeri non vi saranno però la citata locandiera e il consorte, bensì un loro aiutante messicano, Bob (Demian Bichir), mentre si palesano man mano altri ospiti dello stallo: il mellifluo Oswaldo Mobray (Tim Roth), che sostiene, documenti alla mano, di essere il boia atteso a Red Rock, un anziano ex generale confederato, Sanfond Smithers (Tim Roth) ed infine uno scostante mandriano, Joe Gage (Michael Madsen). Ognuno di loro sembra aver qualcosa da nascondere, oltre a covare odio e rancore verso qualcuno, ma vi potrebbe anche essere chi nutre un profondo affetto per la negletta Daisy…

Jennifer Jason Leigh

Jennifer Jason Leigh

Costruito, a parte il descritto incipit, nel rispetto di una compiuta teatralità (personalmente mi ha ricordato l’impianto drammaturgico del film The Petrified Forest, 1936, Archie L. Mayo*), con tanto di suddivisione in 6 atti, The Hateful Eight nella sua particolare forma di “western da camera”, con virate verso il giallo, appare emotivamente sorretto, pur nei suddetti compiacimenti oscillanti fra manierismo ed autoreferenzialità, in primo luogo dal malioso andamento narrativo, capace di sostenere anche due particolari flashback. Nel rendere il normale scorrere di una giornata qualsiasi, Tarantino fa leva in particolare su dialoghi, intrisi di un umorismo sottile e macabro, pur se a volte fin troppo diluiti, ben resi da un ottimo cast.
All’interno di quest’ultimo svettano per intensità drammatica Samuel L. Jackson e Jennifer Jason Leigh, l’uno carico di vindice rabbia pronta ad esplodere platealmente, l’altra, nella sua sinistra dolcezza, di dolore rappreso che la rende silente esecutrice. Il secondo punto di forza è l’apporto dell’ immagine, per quanto compressa nei confini di uno spazio ristretto, idoneo però a farsi proscenio per noi spettatori, con riprese “a filo dei protagonisti”, intese a catturarne ogni espressione o a presagire i loro stati d’animo. Tarantino insiste ancora una volta sulla demitizzazione di eventi storicamente avvenuti, riportati nella loro tragica ed umana realtà, comportante quindi una “visione altra”, in particolare delle loro nefaste conseguenze, lontane certo dal mito della frontiera così come dalla stessa nascita della nazione americana.

Tim Roth e Walton Goggins

Tim Roth e Walton Goggins

Quest’ultima appare fondata su una guerra difficile da dimenticare per ogni sua implicazione morale e sociologica, apportatrice di rovinosi strascichi vendicativi che hanno ormai preso il posto di ogni pietà, compassione o misericordia.
La stessa idea di giustizia, sia che trovi albergo nella coscienza dei singoli uomini, sia che trovi la sua manifestazione nell’applicazione delle leggi dello stato, appare sempre come un’espressione di rancorosa e personale vendetta.
Ancora più insinuante è la tematica della verità, ambiguamente vicina alla menzogna nelle sue molteplici sfaccettature, anche in tal caso resa al di là della mera oggettività, ad uso e consumo delle necessità individuali.
Emblematica al riguardo la lettera scritta (presumibilmente) dal Presidente Abramo Lincoln e rivolta al maggiore Warren, il cui messaggio di speranza volto agli esseri umani in quanto tali, accomunati da identico destino, letto dopo una ormai compiuta mattanza, risuona come un atroce sberleffo alla mitologia unificatrice “politicamente corretta” espressa dal Grande Paese.
L’emporio di Minnie, quindi, diviene, al di là della sua localizzazione, una sorta di microcosmo al cui interno una varia umanità si scaglia contro se stessa, autoeliminandosi dalla faccia della Terra in nome di uno smaccato rifiuto verso qualsiasi forma di condivisibile diversità, ideologica, di genere e razziale.
E così, alla fine, nel grande silenzio che tutto avvolge, non rimase più nessuno …

*Dall’omonimo dramma teatrale di Robert E. Sherwood


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