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- Scritto da Alessio Spinelli
- Categoria: Recensioni film in sala
- Pubblicato: 30 Novembre -0001
Chiunque attenda un altro Django Unchained rimarrà deluso: The Hateful Eight è una creatura differente, un ibrido proteiforme che incunea con fermezza un nuovo, fondamentale tassello all’interno della già variegata filmografia di Quentin Tarantino. Girato nel gloriosissimo formato da 70 mm, il film merita senza dubbio di essere ammirato in tale, sfavillante versione: un chiaro omaggio al cinema dell’età dell’oro e ai “Roadshow Release” degli anni ’50 e ’60 che vanta 20 minuti aggiuntivi rispetto alla copia digitale, tra cui un’overture e un intermezzo di 12 minuti (gustosa trovata narrativa dal sapore rétro che scinde nettamente il lungometraggio in due parti).
Agli antipodi rispetto alla pellicola precedente, l’intera struttura di The Hateful Eight subisce i dettami del più puro impianto teatrale, virando con decisione su un’atmosfera densa di claustrofobia che si oppone con decisione alle poche, quanto sfolgoranti e ossigenanti, sequenze in spazi aperti. Un incipit che potrebbe riassumere in sé l’essenza di molto cinema western (e debitrice degli horror di stokeriana memoria) fa da prologo ad una prima parte quasi soffocante, in bilico fra un kammerspiel e il più classico dei gialli di Agatha Christie: nulla è lasciato al caso, l’azione ristagna e nell’aria aleggia un sottile vena di morbosa inquietudine, in un crescendo di ossessività magistralmente restituita da un cast di bad boys in ottima forma e da una sceneggiatura ben ritmata.
La seconda metà si tinge repentinamente di rosso, l’indispensabile centralità del dialogo cala e prendono il sopravvento tinte fosche tendenti ad un orrore di gusto spiccatamente grandguignolesco, in una spirale di violenza che senza distinzioni di razza, sesso o condizione sociale avviluppa tutti i personaggi racchiusi nel rifugio/emporio. E non è esagerato ravvisarvi una sorta di allegoria degli USA, dalle origini e tappe storiche fondamentali fino al raggiungimento della contemporaneità, specchio di un’America che stenta a convivere con le proprie minoranze etniche e divisioni interne. Ponendo per un attimo in secondo piano la limpidezza dell’operazione nostalgia, risulta emblematica la scelta di un formato così ampio per filmare sequenze tanto opprimenti, palesando una necessità di estendere il discorso a lidi più ampi, in un gioco al massacro che rimanda ai conflitti intestini di un Paese, inesorabilmente destinati alla deflagrazione. Il cast, ensemble di vecchie volpi tarantiniane e new entry, regge con fermezza l’urto di The Hateful Eight, duettando con le fondamentali musiche del maestro Ennio Morricone (alla prima collaborazione con il regista), spesso piacevolmente onnipresenti ma, allo stesso tempo, in grado di farsi da parte quando necessario.
Con maestria Tarantino sa reinventarsi dopo Django Unchained, esibendo una notevole capacità nel mixare generi differenti (senza incorrere nel rischio di ottenere un pastiche imbarazzante), dosando con mestiere le citazioni (soprattutto quelle autoreferenziali) e limando il proprio ego registico (spesso difficile da domare). Caustiche le polemiche che hanno preceduto il lancio del film, tanto quanto quelle che ne stanno accompagnando l’uscita e quelle che seguiranno: ad ogni modo Tarantino tira fuori dal cilindro, con uno strabiliante coup de théâtre, un pregevole gioiellino che, senza essere esente da imperfezioni, urla a squarciagola tutto l’amore del regista per la Settima Arte.
Voto: 3/4