Il crocifisso ricoperto di neve che con una musica tutt'altro che rassicurante accompagna i titoli di testa di "The Hateful Eight" non ci gira intorno: quella a cui stiamo per assistere è una storia di tradimento e di morte. Comincia così Quentin Tarantino, inviando quel messaggio subliminale di tensione che già comincia a farsi largo, sotto pelle, nello spettatore. Vittima anche lui di quel gioco di pazienza e di nervi destinato a sfiancare e a sfidare gli odiosi otto protagonisti, costretti a condividere da sconosciuti, causa bufera di neve, una locanda dove nessuno ha intenzione di fidarsi dell'altro.
Del resto, c'è da crederci, e non solo perché tra i vari cacciatori di taglie presenti e personalità varie e ambigue, c'è una prigioniera dal valore di diecimila dollari a cui Il Boia John Ruth di Kurt Russell, precisa, nessuno deve provare ad avvicinarsi. A minare la fiducia, ma soprattutto la pace infatti è la contestualizzazione Storica, post-Guerra Civile Americana, dove per nulla ancora sono state appianate le divergenze tra nordisti e sudisti e men che meno quelle tra neri e bianchi. Una convivenza forzata, dunque, in cui gli aspetti politici e razziali minano la calma apparente, sovrapponendosi a quelli mercenari e, secondo il pensiero di qualcuno, a quelli omicidi di chi sta fingendo di essere chi non è per portare avanti il proprio piano e liberare la furba, e tranquilla, prigioniera. Da "Django Unchained" allora il passo avanti eseguito da Tarantino sulla Storia del suo paese è decisamente più corto, eppure mai così attuale e consapevole: al punto da metterlo addirittura in condizioni di limitarsi con la libertà di scrittura per andare a prendersi sul serio e imbastire un discorso sociale e morale sugli Stati Uniti d'America. L'evoluzione cominciata con "Bastardi Senza Gloria", che avevamo definito da queste parti come segno di maturazione del regista allontanato dal suo vecchio mondo, in "The Hateful Eight" compie un ennesimo passo in avanti quindi, non limitandosi più a prendere un evento realmente accaduto e a riscriverlo con un finale e uno svolgimento differente, ma bensì a rispettarlo nella sua costruzione, guardando ad esso con occhio responsabile, critico e, cosa non da poco, ben schierato.
Ciò comunque non significa che il cinema di Tarantino abbia cambiato completamente i suoi connotati, anzi. Il meglio di questa sua ultima fatica risiede principalmente nell'esser riuscito a compiere un lavoro intelligente e stimolante senza perdere l'ironia, il gusto e la raffinatezza di un impronta che, probabilmente, resta inconfondibile, proprio perché abituata ogni volta a cambiar genere e a sfidare sé stessa (spiegato perché di western c'è solo l'ambientazione). Ecco perché strizza l'occhio ad Agatha Christie e ai suoi romanzi gialli migliori, "The Hateful Eight", in particolare a quei "Dieci Piccoli Indiani" che non appena sfiora con la mano, dando la sensazione di voler afferrare, subito dopo fa a pezzi con l'accetta, allontanandocisi, e confermando l'intenzione simbolo di Tarantino di "rubare", si, ma rielaborando a suo modo. Calpestando, di fatto, ogni cliché rintracciato o sperato (nessuna eccezione per quello autoreferenziale de "Le Iene").
Crescita artistica, ma allo stesso tempo, voglia di non cambiare, che serve al regista di "Pulp Fiction" per non perdersi in sé stesso ed aumentare sempre l'asticella di difficoltà: un asticella con cui, forse per la prima volta, gli tocca fare a braccio di ferro, vincendo tuttavia la partita, ma con qualche difficoltà in più rispetto al solito. Soffre di alcuni leggeri problemini di scrittura questo suo ultimo lavoro, in particolare nei due capitoli d'apertura ambientati in carrozza, sulla neve, lontano dalla locanda. Non si concede mai a dei cali di tensione, è vero, ma non può evitare, al contrario, quelli di un ritmo che nelle sue quasi tre ore, a tratti, lancia segnali di sforzo, non preoccupanti, ma percepibili. Discese da attribuire, pensiamo, a quella ricerca di equilibrio con cui ha cercato di frenare gli istinti creativi, contenendoli (parzialmente) nei bordi, e dare priorità alla visione periferica approfondita su di una società e una popolazione che, nonostante sia passato oltre un secolo, porta tuttora sul groppone i residui di una guerra civile non del tutto digerita e messa alle spalle. Residui che, magari, è il caso di guardare negli occhi e affrontare.
Appurato ciò, è evidente che a "The Hateful Eight" e alla sua missione non si può recriminare nulla, se non, forse, la mancanza di quel monologo folgorante che ci aspettavamo di trovare perché abituati troppo bene da un diverso passato: motivo per cui quest'opera è stata già identificata, da alcuni, come un tantino al di sotto (guai a dire minore) rispetto ai suoi fratelli. Ma come per una ragazza attraente che fa dei suoi difetti un arma in più per la seduzione, stesso discorso vale per questo film, visto e considerato che di fronte a un regista che mette in piedi un esperienza visiva ed emotiva del genere (in cui l'impianto teatrale è fondamentale), che rischia, che sfida sé stesso per compiacere e provocare il pubblico - riuscendoci infine - non si può far altro che dire grazie.
Per cui grazie, caro Quentin. E torna presto!
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