Il cacciatore di taglie John Ruth, detto "Il Boia" sta portando la fuorilegge Daisy Domergue a Red Rock per farla impiccare quando è costretto a far salire sulla diligenza che ha noleggiato due passeggeri indesiderati: prima il cacciatore di taglie di colore Marquis Warren e poi il sudista Chris Mannix.
Una tempesta di neve costringe il gruppo a fermarsi all'emporio di Minnie, qui incontreranno altri tre viaggiatori anche loro bloccati dalla bufera, stranamente però mancano i titolari dell'emporio Minnie e Sweet Dave, sostituiti da un messicano..
L'ottavo (?) film di Quentin Tarantino segna un cambio di passo rispetto agli ultimi due lavori: la rilettura della storia si fa più fedele come testimoniato anche dal mezzo con cui il regista ha girato il film, l'Ultra Panavision 70 mm, che con il leggero tremolare dell'immagine trasporta subito lo spettatore in una dimensione antica di fruizione dello spettacolo. Io mi sono commossa anche alla scritta intervallo, dato il nervoso che mi procura lo stacco improvviso nelle multisale contemporanee dove ti strappano dall'immersione filmica a metà di una frase, accecandoti brutalmente per offrirti bibite e popcorn.
L'intervallo è durato esattamente dodici minuti, circa quel quarto d'ora a cui allude la voce off alla ripresa dello spettacolo. L'intervallo non è solo un tributo alle vecchie pellicole ma una vera e propria cesura tra le due parti del film: la prima introduce con molta calma ambientazioni e personaggi, siamo nel Wyoming, pochi giorni prima di Natale, un Cristo semi sepolto dalla neve segna l'arrivo a una stazione di posta “dimenticata da dio”, una baracca di legno che diventerà il luogo dove si sveleranno le vere identità dei vari personaggi e si pareggeranno diversi conti in un inesorabile gioco al massacro, a cominciare da quello tra il Maggiore Warren, nordista di colore e il generale sudista Sanford Smithers: sono passati pochi anni dalla guerra civile americana e gli animi non sono ancora assopiti. Ma si assopiranno mai gli animi di quest'America costruita sulla violenza e sull'odio che celebra un'improbabile amicizia sulle parole di una lettera (fasulla?) di Abramo Lincoln letta sotto il cadavere di una donna impiccata? A proposito, la prima donna impiccata in America è Mary Surratt, presunta complice dell'omicidio di Lincoln la cui storia è stata raccontata da Robert Redford in The Conspirator.
A lasciarmi un po' perplessa è stato proprio il finale con la strana amicizia tra i due sopravvissuti prima acerrimi rivali: dato che il tema dello scontro razziale è tornato dominante negli USA mi sarei aspettata un ultimo conflitto a fuoco ma forse quella risata in faccia alla morte è ancora più cinica e inquietante di una sparatoria.
Alla prima parte molto parlata si oppone la seconda dove la violenza splatter, che era totalmente assente nel primo tempo diventa dominante e Tarantino ci riconduce nel mondo granduignolesco che ben gli compete. La sinfonia mortifera di Ennio Morricone e l'improvviso vortice di morti violenti virano d'horror un film molto parlato, affabulatorio (e il regista è talmente bravo ad incantarci, anche sulla fiducia, che dimentichiamo alcune nozioni che dovremmo ben conoscere anche prima di entrare in sala o che ci mette sotto il naso nei titoli di testa). Mi riferisco all'horror perché tra le suggestioni filmiche che gli hanno inspirato The Hateful height, Tarantino cita La Cosa di John Carpenter che ha per protagonista Ken Russell e allora sarei proprio curiosa di sapere se nella versione originale il generale Smithers dice letteralmente a John Ruth "tu sei una jena" riferendosi al primo film di Tarantino o se gli da del serpente, omaggiando Jena (Snake) Plissken.