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"God says we need to love our enemies. It hard to do. But it can start by telling the truth. No one had ever asked me what it feel like to be me. Once I told the truth about that, I felt free. And I got to thinking about all the people I know. And the things I seen and done. My boy Treelore always said we gonna have a writer in the family one day. I guess it's gonna be me. "(Aibileen Clark)
Quando tenta di affrontare la delicata e spinosa questione della segregazione razziale, il cinema segue inevitabilmente due strade: la via del Colossal, dove un ricco affresco storico si accompagna a personaggi il cui eroismo finisce per essere spesso amplificato, e quella assai meno meno battuta delle piccole grandi storie, frammenti di vite normali che pur lontane dal clamore delle grandi marce vivevano nella quotidianità le tante e troppe sfumature della cattiveria umana.
è il caso di the help, tratto dal bestseller dell'esordiente Kathryn Stockett, che coi suoi 200 milioni d'incasso la scorsa estate è diventato un vero e proprio caso al botteghino americano: un successo notevole per Tate Taylor, regista praticamente esordiente voluto espressamente dalla scrittrice(entrambi sono figli del Sud nonché amici d'infanzia), le cui ragioni non sono da cercare in una sontuosa messa in scena né tanto meno in spettacolari effetti speciali.
Teatro della nostra scena è infatti la Jackson del 1963, luminosa città dello stato del Mississippi resa ancora più splendente dai colori brillanti della fotografia di Stephen Goldblatt, dove è una prassi consolidata da generazioni che siano le domestiche di colore, se pur discriminate a tal punto da non potere nemmeno usare lo stesso bagno dei bianchi, a crescere i figli delle giovani padrone troppo occupate a dividersi fra partite di Bridge, incontri di beneficenza e serate mondane: un microcosmo rigido e inflessibile che il film sceglie di ricostruire senza mezze misure, tracciando una linea netta fra buoni e cattivi.
Nonostante non rinunci nemmeno a una goccia della dose di retorica e ruffianeria tipica del genere, the help riesce però a fare la differenza grazie a uno dei cast corali più incredibili degli ultimi anni: senza timore di prendere sulle spalle il peso dell'intera pellicola, un sodalizio di attrici straordinarie trasforma la visione in un'esperienza di devastante impatto emotivo, che in tutti i suoi lunghi 140 minuti di durata riesce a farci amare, odiare, ridere e piangere con freschezza e spontaneità innegabili.
Nella galleria rigorosamente al femminile di interpreti già ampiamente premiate e plurinominate, è praticamente impossibile avere delle preferenze: nei panni delle domestiche Minny Jackson e Aibileen Clark, Octavia Spencer e Viola Davis bilanciano alla perfezione le deviazioni più leggere della trama con la sua anima più autenticamente drammatica, mentre dall'altra parte della barricata si fanno senza dubbio notare una Jessica Chastain raggiante nel ruolo della svampita e dolce Ms Celia, e la spietata Hilly Holbrook di Bryce Dallas Howard, che nel suo essere odiosa oltre ogni limite e gratuitamente cattiva( nonché oggetto di una gustosissima vendetta personale) avrebbe anche lei meritato, a dispetto del politically correct, la nomination all'Oscar; il compito di mettere in moto l'azione spetta però alla deliziosa Emma Stone, che alle prese con l'aspirante scrittrice Eugenia "Skeeter" Phelan si confronta con un personaggio decisamente meno interessante e forse corrotto storicamente più di altri(quante scrittrici bianche avrebbero avuto un sincero interesse a raccogliere le dolorose testimonianze delle domestiche di colore e quanti editori, se pur in forma anonima, avrebbero mai acconsentito alla pubblicazione?)ma altrettanto indispensabile, impegnata in una crociata personale contro le amiche tutte rigorosamente già sposate e con figli, non solo per la fine delle discriminazioni razziali ma anche per il proprio incompreso desiderio di emancipazione.
Forse l'aspettativa di qualcosa di nuovo è stata ancora una volta disattesa e the Help è davvero progettato ad arte per raccogliere consensi e fare incetta di premi, ma in fondo si tratta solo di un dettaglio: quello che conta è che siamo dinanzi a un film immenso e vibrante come non se ne vedevano da tempo, pronto a scavarti dentro e ad arrivare dritto al cuore, per sussurrarci le voci malinconiche di un passato che non è in fondo tanto remoto, ma sembra spaventosamente facile da dimenticare.
Ps: le musiche di Thomas Newman sono ancora una volta splendide, semplici e pulite come potremmo aspettarci: ascoltatele al momento giusto e cadrete in lacrime all'istante.
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